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Di quarantene, febbri, pandemie e pazienza per sè e per gli altri. Un ravennate in Francia ai tempi del Coronavirus

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Trascorro le giornate sul divano, a Parigi, misurandomi la febbre. Almeno ho un passatempo. Non so se ti ricordi come si sta da ammalati: fa schifo. Non hai voglia di guardarti un film, né di leggere. Testa pesante, nessuna voglia di mangiare. «E adesso cosa me ne faccio di tutta quella roba che mi sono messo in dispensa?». Avevi saccheggiato persino il reparto vegano.

Mi sono ammalato tre giorni fa, giusto prima che Macron annunciasse la quarantena. Nel suo discorso, il presidente ha usato moltissime volte l’espressione “siamo in guerra”. Credo sia un modo per far percepire la gravità della situazione a un popolo che, fino al giorno prima, affollava i parchi e i bistrot, andava a votare o a prendersi lacrimogeni dalla polizia. Almeno lì le mascherine le portavano.

Un popolo che, a Parigi, abita in case da 20 metri quadri, o convive con degli sconosciuti. Come li convinci altrimenti a rimanere in casa?

Avrei comunque preferito l’avesse chiamata col suo nome, cioè emergenza sanitaria, o pandemia. Una pandemia del ventunesimo secolo, certo, il cui dramma è testimoniato da migliaia di foto di biscotti, pasta fresca e piadine fatte in casa, dalle lunghe ore di zapping tra Netflix e i canali per adulti, dall’isolamento rotto solo grazie a qualche autocertificazione sottobanco. E avrei preferito che le persone ne avessero compreso la gravità senza dover ricorrere all’immaginario delle bombe e della fame, efficace solo coi nostri nonni.

La Francia sta ripercorrendo la stessa strada dell’Italia: il governo ha dato poche indicazioni, chiare ma severe, riassumibili con “mantenete le distanze”, e infatti il giorno dopo chi poteva scappare in campagna ha affollato le stazioni, e chi non poteva ha affollato i supermercati. D’improvviso mancava a tutti la carta igienica. Nessuno che si sia interrogato sul valore collettivo della responsabilità individuale.

La settimana scorsa il Ministero della Salute si è sentito in dovere di chiarire, con un comunicato ufficiale, che la cocaina non è efficace nel curare il corona virus, dopo che su Whatsapp erano circolate insistentemente queste voci.

E poi ci sono i Gilets Jaunes che, avendo imparato a usare Google, passano le giornate a formulare nuove teorie complottiste. C’è attesa che la scienza trovi una soluzione, ma nel frattempo ci si affida alla superstizione.

Qualche sera fa sera, alle otto, tutto il quartiere era alla finestra ad applaudire e gridare. Mi ha ricordato certi atterraggi di qualche anno fa quando rientravo in Italia. Mi piacciono questi modi popolari, un po’ ingenui, di sentirsi comunità. Peccato accadano solamente in momenti di grande difficoltà, come un attentato a Parigi, un terremoto a L’Aquila, o una nevicata a Ravenna. Mi piace quella solidarietà lì. Ascoltavo le grida e gli applausi e nonostante io sia straniero, sentivo un’inclusività forte. Sì, mi sentivo protetto.

Alcuni amici si stanno organizzando per suonare e cantare alla finestra, come si usa da noi. Siamo famosi per questo: il veterinario aveva soprannominato il mio gatto “le chanteur”, perché miagolava di continuo. «Si vede che è italiano – mi aveva detto – voi qualsiasi cosa accada, cantate».

Ora sto meglio, la febbre è scesa e sono passate le ansie da “sarà corona virus?”. Ché oggi sembra essere l’unica malattia che puoi prenderti. Posso smetterla di sentirmi in colpa per poter essere un potenziale pericolo per la mia compagna e per gli amici.

Guardo l’Italia e ne vado fiero, anche se ne leggo la fatica.

So che anche qui nei prossimi giorni gli applausi lasceranno posto all’insofferenza, al malessere, alla polarizzazione del pensiero attorno a due poli: da una parte i paladini della reclusione volontaria e dall’altra i libertari dell’”andare a pisciare il cane” a ogni ora. E so anche il perché: non è affatto facile avere continuamente qualcuno attorno. È normale, incazzatevi pure con chi esce, e uscite pure a prendervi insulti nelle vostre piccole passeggiate solitarie.

Servono montagne di pazienza e laghi di comprensione per sè e per gli altri. Chissà quanto sarà bello poi riconquistare le nostre preziosissime libertà. Abbiamone cura in momenti come questo. Buona quarantena Romagna mia, lontan da te mi tocca stare.

Roberto Pasini

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Commenti

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  1. Scritto da Umberto

    Un abbraccio. Già a casa non è facile, in un paese straniero dev’esserlo di più. Buone cose