DOMINANZE PATRIARCALI / 5 / Ilenia Fabbri e il femminicidio che ‘si doveva fare’ perché la donna aveva osato alzare la testa

18 novembre 2021, Corte d’assise di Ravenna – processo per il femminicidio di Ilenia Fabbri

Messaggi, whatsapp, registrazioni vocali, filmati di telecamere di videosorveglianza. I testimoni sono commissari, ispettori e sostituti della Squadra Mobile e della polizia scientifica. L’udienza si presenta senza novità rispetto a quello che è già sappiamo. Ma, siccome le prove si formano nell’aula di giustizia, continuo a prendere appunti. La penna scorre pigra.

Poi s’impenna: “Una volta che esco si fanno tutte le cose che si devono fare”, è la voce di Claudio Nanni che dà istruzioni a Pierluigi Barbieri sul posticipo dell’esecuzione del femminicidio. Sottolineo la parola ‘devono’.

Quel femminicidio si DEVE fare. E’ un dovere. Un’urgenza. Solo causa covid non è stato fatto prima. E’ stato rimandato a quando il tampone di Nanni sarà negativo. Ma nulla è cambiato rispetto a ciò che è già stato deciso: uccidere quella donna che ha alzato la testa, pretendendo ciò che le spetta e che le è stato negato per dieci anni. Perché ha denunciato i torti subiti. Perché se l’è cercata. Non doveva farlo! Perciò si deve fare. E’ un obbligo morale. E’ una questione di giustizia.

Per non dargliela vinta, dal titolo del libro di Giovanna Ferrari, che racconta ciò che è successo alla propria figlia, uccisa dal marito. E Nanni ai soldi ci tiene in particolar modo. Così veniamo a sapere anche di trenta mila euro investiti in una finanziaria che rendono ogni mese novecento euro di interessi. Una pacchia. La penna si rilassa.

Intanto scorrono delle immagini sullo schermo a lato della Corte.  Due uomini dentro e fuori da un bar che parlano. Uno è Claudio Nanni, l’altro è Pierluigi Barbieri. Mandante e killer. Confabulano. I funzionari di Polizia le descrivono. Ecco le loro auto, il manico del martello ritrovato fra i rovi, delle taniche di acido, della buca, della vanga per scavarla, del trolley grande abbastanza per metterci dentro un corpo umano.

E’ il momento di entrare nella casa dove Ilenia Fabbri è stata uccisa. Saranno due i funzionari chiamati a illustrare gli esiti dei sopralluoghi nell’abitazione il 6 febbraio 2021. “Proseguire a porte chiuse … far uscire i giornalisti”, è la richiesta dell’avvocata Veronica Valeriani, sollecitata da Arianna Nanni.

Il Presidente, Michele Leoni, dispone di non riprendere le immagini  “per rispetto alla memoria”. Entriamo. Scalini, pianerottolo, letto, pavimenti. Gocce. Sgocciolature. E un volto che non è più un volto. Un tremore si propaga incessante e compulsivo. Le teste si abbassano per rispetto alla memoria. Mi cade la penna. Per fuggire. Mi astraggo. Vado con la mente al libro della psicologa e criminologa Anna Costanza Baldry, ‘Orfani speciali’, (Franco Angeli, 2017) sulle conseguenze psicosociali su figlie e figli del femminicidio. ‘La questione è che degli orfani speciali si dovrebbe rendere responsabile tutta la società’.

E più oltre. E’ vero che il femminicida è l’unico responsabile materiale dell’omicidio, ma è altrettanto vero che ‘la società civile è in parte corresponsabile’. Non è stata in grado di proteggere le sue cittadine, le sue figlie e i suoi  figli lasciandoli orfane e orfani, sia perché non è in grado di contrastare una cultura misogina e sessista, sia ‘per mancanza di tutele fattive, coordinate, tempestive ed efficaci’. E dire che la Convenzione di Istanbul è entrata nel nostro ordinamento già da otto anni.

Ha stabilito che i femminicidi sono una questione strutturale e non un’emergenza, perché avvengono da millenni. Che le donne sono titolari del diritto umano a non vivere nella violenza, e non in quell’humus culturale in cui le donne non valgono nulla. Che la subordinazione delle donne è ancora un retaggio funzionale al potere del pater familias, nonostante la locuzione sia stata stralciata dal codice penale da oltre quarant’anni. La Convenzione di Istanbul ha  introdotto la regola delle quattro P: Prevenzione, Protezione, Punizione, Politiche integrate.

Ma … tra il dire e il fare c’è di mezzo il vuoto applicativo. Per esempio, prendiamo la Prevenzione del rischio, che dovrebbe partire dalle radici culturali. Bene, è ancora in alto mare, siamo ancora al non riconoscimento della violenza all’interno di una relazione di coppia. La formazione, dovrebbe essere obbligatoria per le forze dell’ordine, i sanitari, i magistrati, i giornalisti, gli psicologi, i pediatri, gli assistenti sociali, gli insegnanti, invece è a macchia di leopardo nel territorio, carente, spesso inadeguata. Succede che i formatori siano intrisi di vecchi stereotipi, di patriarcale cultura.

E’ del 16 settembre del 2021 la risoluzione del Parlamento europeo che, a proposito degli euro crimini,  raccomanda di inserire fra i reati più gravi i reati contro le donne. In base ai dati dell’Eures, nel 2019 in Europa sono state uccise 1.421 donne, una media di quattro al giorno, una ogni sei ore: soprattutto nei paesi dell’Europa orientale e meridionale.

I finanziamenti dei centri antiviolenza e delle case rifugio, sono al palo, sono gocce nel mare. E protezione, punizione e politiche integrate, dove sono? Anche loro vagano in giro per l’Italia a macchia di leopardo. Braccialetti elettronici, centri antiviolenza, case rifugio sono sparsi qua e là. Pare che finalmente stia per essere rinnovato il Piano strategico nazionale contro la violenza di genere scaduto da undici mesi.

Il tremito mi fa tornare in aula e mi chiedo quante e quanti sono le orfane e gli orfani di femminicidio, minorenni o appena maggiorenni? Quante vittime fa un femmincida oltre alla donna che ha ucciso?  Madri, padri, figlie e figli. Baldry  ha stimato che, dal 2000 al 2014, gli orfani di quelle donne sono stati 1.600. Purtroppo, da quando lei è morta, nel 2019, nessuno ne ha più tenuto il conto.

Nel 2018 è stata promulgata la legge  n.4  che ha introdotto per la prima volta tutele per orfane e orfani di femminicidio: gratuito patrocinio, assistenza medico-psicologica, sospensione per il femminicida della pensione di reversibilità e del diritto all’eredità, possibilità di cambiare il cognome. Ma fino all’anno scorso mancava il decreto applicativo. E’ arrivato e vige dal 16 luglio 2020.

Prevede: ‘Erogazione di doti educative, assistenza medico – legale, sostegno psico – sociale e sostegno allo studio, accompagnamento all’inserimento lavorativo, sostegno alle famiglie affidatarie, poli regionali e osservatori regionali sul fenomeno, azioni di comunicazione e sensibilizzazione’.

Ma … tra il dire e il fare … c’è la scarsa informazione e la solita insufficiente formazione degli operatori. Le assistenti sociali spesso non lo conoscono, per non parlare dell’impreparazione delle prefetture. E quali sono le conseguenze per le altre vittime dello stesso femminicidio? Come proseguono le vite di chi, in un attimo, ha perso madre e padre?

Ho trovato solo  un testo. E’ della giornalista e scrittrice Stefania Prandi: ‘Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta’, (Settenove, 2020). Racconta dodici storie di madri, figlie e figli di donne uccise dal partner o ex.  ‘La principale difficoltà – confessa l’autrice – è stata trovare chi volesse farsi intervistare. Ho riscontrato diffidenza a volte accompagnata da disprezzo e rabbia – verso la categoria dei giornalisti’.

E qui troviamo l’altra pecca culturale: i mass media. Spesso sono  veicoli di stereotipi sessisti,  di enfatizzazione ed erotizzazione della violenza tipica della cultura patriarcale. Nonostante il codice deontologico e la carta di Treviso anche l’informazione ha bisogno di FORMAZIONE. C’è ancora tanto da studiare e lavorare per colmare il divario fra il dire e il fare, pertanto raccolgo  la penna e continuo a scrivere anche se talvolta mi trema la mano.

Come oggi.