RAVENNA E LA PANDEMIA UN ANNO DOPO / 7 / Angelini, Igiene Pubblica Asl Romagna: il vaccino funziona, quindi non abbassiamo la guardia in vista del traguardo

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La dottoressa Raffaella Angelini dirige l’Igiene Pubblica nell’ambito dell’ASL Romagna e con lei abbiamo raccontato in molte occasioni, quest’anno, l’evolversi della pandemia da Covid nella nostra provincia. Il suo osservatorio, quello della prevenzione, del tracciamento e ora anche della vaccinazione, era e resta l’avamposto più avanzato per avere il polso della situazione. Lei è una donna tenace e appassionata, che non si risparmia e non si scoraggia mai. Abituata a rimboccarsi le maniche e a fare, non si è persa d’animo nemmeno nei momenti più difficili: a marzo, quando l’ospedale di Ravenna era preso d’assalto dai malati della prima ondata, o nei mesi di novembre e dicembre, quando l’onda lunga della seconda fase ci ha fatto piombare in uno scenario nero, sotto il martellamento quotidiano di bollettini di guerra con tanti contagiati e troppi morti. L’Igiene Pubblica non ha mai perso il bandolo della matassa e qui – sebbene fra tante difficoltà e qualche ritardo – il tracciamento dei casi ha retto, non è andato in tilt come è accaduto altrove. Le USCA hanno svolto una funzione preziosa. Gli ospedali non hanno mai smesso dopo l’estate di erogare le prestazioni più urgenti per le altre patologie. E la campagna vaccinale è partita bene, malgrado la carenza di vaccini. Non è un quadro solo rosa e fiori, abbiamo avuto anche a Ravenna i nostri momenti bui, ma qui non si è mai avuta la sensazione che la situazione fosse fuori controllo. E questo lo si deve anche al lavoro di uomini e donne come Raffaella Angelini, che a un anno dall’inizio di questa guerra contro il Covid traccia un primo bilancio.

L’INTERVISTA

Buon giorno dottoressa Angelini, come sta?

“Bene. Siamo immersi nel lavoro, nel pieno della campagna vaccinale, che quanto a impegno è quasi più grande di prima.”

Sa bene che la sua via crucis non è ancora finita…

“Lo so, lo so, quando sarà finita lo sarà per tutti.”

Lei sarà l’ultima, quella che spegne la luce e chiude la porta.

“Sbattendola, magari (ride, ndr).”

Ne avrebbe tutte le ragioni. Ma veniamo a noi. Ritorni con la mente a un anno fa, ai giorni di Codogno e del primo caso di Covid in Italia. Che cosa pensava potesse accadere?

“Nessuno di noi s’immaginava nulla di simile a ciò che abbiamo vissuto. Ci abbiamo messo anche un po’ prima di rendercene completamente conto. Certo, dopo il caso di Codogno avevo capito che eravamo nei guai. Chi fa il mio mestiere lo sa. Il fatto che ci fosse un ragazzo in buona salute di Codogno, che non è proprio il centro del mondo, che si era ammalato di Covid senza essere stato fuori dall’Italia, ha fatto cadere tante false sicurezze, come quelle che saremmo stati al sicuro chiudendo le frontiere con la Cina. Quindi, se c’era quel caso, era chiaro che in giro ce n’erano altri e ci aspettavamo che il virus si sarebbe diffuso. Però da questo a immaginare tutto quello che è accaduto dopo e che a un anno di distanza ci troviamo ancora in questa situazione, questo proprio no.”

Ma vi siete subito messi al lavoro, perché avete percepito comunque il pericolo.

“Pancia a terra, ci siamo dati da fare. Il 28 febbraio anche noi abbiamo avuto il primo caso e poi via via il mese di marzo è stato molto difficile, per certi versi drammatico. Per fortuna abbiamo trovato una disponibilità del personale inaspettata. Ma abbiamo affrontato la prima ondata con l’idea che sarebbe finita, che avremmo superato l’emergenza. Quindi potevamo fare i sacrifici che ci eravamo imposti e che erano richiesti, perché erano immaginati per un tempo limitato. Ricordo che la domenica di Pasqua (il 12 aprile, ndr), è stata la prima occasione in cui ci siamo detti, qualcuno adesso sta a casa e si riposa. Erano trascorsi più di 40 giorni e avevamo lavorato tutti i giorni, sabato e domenica compresi, fino alle 9 o alle 10 di sera. Perché c’era da mettere in piedi un sistema di gestione della pandemia e dell’emergenza che era da costruire di sana pianta. Nessuno di noi aveva mai dovuto affrontare una cosa del genere. Non eravamo certo preparati. Ma se a Pasqua mi avessero detto che a Natale 2020 ci saremmo trovati nella situazione in cui poi ci siamo trovati, credo che avrei riso. Non ci avrei creduto. Eravamo convinti in primavera di potercela fare a tenere il virus sotto controllo.”

Anche perché a Ravenna la prima ondata non è stata così violenta come in altre zone d’Italia.

“Sì. La nostra grande fortuna è stata che il primo caso lo abbiamo registrato il 28 febbraio e il primo lockdown c’è stato l’8 o 9 marzo, se non sbaglio. Quindi la circolazione del virus prima del lockdown è stata limitata, era appena iniziata. Eppure abbiamo visto i danni che ha fatto ugualmente. Poi, grazie al confinamento, i casi sono calati drasticamente e abbiamo affrontato l’estate più tranquilli. Pensavamo effettivamente di potere tenere la situazione sotto controllo.”

Lei non ha mai creduto che il virus fosse finito o clinicamente morto, come qualcuno sosteneva?

“No. Ho sempre pensato che quella fosse una sciocchezza. Perché il contagio non si è mai azzerato. Non abbiamo mai avuto una settimana intera senza casi, nemmeno in estate.”

Però non si aspettava una seconda ondata così forte e virulenta.

“No. Mi aspettavo una ripresa con l’autunno, ma non una situazione come quella che abbiamo attraversato e che non è ancora finita. E quando fra la fine di settembre e ottobre i casi sono tornati a salire in modo sempre più consistente, quello, lo confesso, è stato un momento molto frustrante. Abbiamo avuto per un po’ la sensazione di non potercela fare a superare la prova e a ripartire. Poi, invece, ci siamo dati da fare. Perché ce la si può sempre fare, pur fra mille difficoltà. E siamo ancora qui a fare sempre il nostro lavoro. Questo è il lato più brutto della vicenda. Poi c’è anche il lato bello e positivo. Nella disgrazia è venuto fuori il meglio delle persone, i colleghi, gli infermieri, il personale para-infermieristico, gli impiegati, i sindacati, tutti si sono resi disponibili in un modo inaudito, anche perché magari erano le stesse persone che in altri momenti ti facevano arrabbiare per spostare una cosa o per un’ora di lavoro in più. Nessuno con la pandemia si è posto il problema del turno di lavoro che doveva finire il venerdì e poi continuava anche il sabato e la domenica per dire. Questo è successo negli ospedali, in chi faceva il tracciamento, in chi operava sul territorio, in chi fa i vaccini adesso. Tutto questo ha cambiato il mio sguardo sulle persone.”

Raffaella Angelini

È un’esperienza umana e professionale che lascia il segno.

“Sì. La sanità ha attraversato e sta ancora attraversando una prova durissima e non era scontato che la reazione fosse così efficace e generosa, così positiva. Perché vede, noi veniamo da forse 10 anni e più in cui si è sentito parlare solo della necessità di ridurre i costi della sanità. Abbiamo attraversato questi anni sentendoci come protagonisti involontari di uno spreco, quindi con un forte senso di frustrazione in quanto addetti alla sanità. Con questa idea incombente su di noi, chiamati a fare di più spendendo di meno e con meno personale. Una cosa che sentiamo particolarmente noi che facciamo prevenzione e, si sa, la prevenzione non fa mai notizia. Quasi tutti i governi hanno usato la sanità come un bancomat. La sanità costa e quindi, chi voleva tagliare, tagliava nella sanità.”

Secondo lei, hanno capito finalmente che nella sanità bisogna investire e non tagliare? La lezione è arrivata?

“Sì, adesso penso che si sia proprio capito. E devo dire che anche il discorso del nuovo premier Draghi lo testimonia.”

Certo. Ma adesso bisogna aspettare i fatti. Di parole ne hanno spese tante, tutti.

“Sì, non c’è dubbio. Vede, a volte mi faccio prendere dall’entusiasmo. Adesso per fortuna non c’è più nessuno che dice la sanità deve costare meno. Ma per i fatti ci vuole anche tempo. Prendiamo i medici e gli infermieri che non si trovano, perché paghiamo il prezzo di una cattiva programmazione in campo sanitario. Sono stati ridotti i posti negli ospedali, i posti nelle scuole di specializzazione. E per un medico, per esempio, servono in media 12 anni di formazione: non si cambia registro da un giorno all’altro e, soprattutto, non vedremo risultati da un giorno all’altro.”

Per chi stava sul campo, immagino sia stato importante anche sentire la vicinanza delle persone. Penso in particolare a tutte le manifestazioni di solidarietà della prima fase, a tutte le donazioni straordinarie agli ospedali.

“Sicuramente. Questo ci ha dato forza. E un’altra cosa che contraddistingue in modo positivo il nostro territorio e che non sarà mai valorizzata abbastanza è l’unità e la coesione delle istituzioni locali. Non dico che non esistano discussioni o tensioni fra un territorio e l’altro, fra un sindaco e l’altro, però quando succede qualcosa di grave qui si trova l’unità d’intenti, la disponibilità, la presenza. Io non ho mai avuto per esempio l’impressione di essere sola o che qualcun altro cercasse di scaricarmi addosso responsabilità che doveva prendersi lui. Questa collaborazione è stata importante e ci ha risparmiato guai.”

In questa seconda lunga ondata, che dura da ottobre e non è ancora finita, in qualche momento lei, che è responsabile dell’igiene pubblica e della prevenzione, quindi sul fronte, in prima linea con l’elmetto, ha mai avuto un momento di scoramento, la sensazione di non farcela?

“È difficile che possa scoraggiarmi. Sono una persona abbastanza tenace. Non sono un’ottimista di natura, però non sono abituata a deprimermi, soprattutto in ambito professionale. Quindi l’idea veramente di non farcela non l’ho mai avuta. I momenti di difficoltà invece sono stati e sono tanti. Insieme a tanta stanchezza. Anche perché fra la prima e la seconda ondata della pandemia c’è stato il grande cambiamento nella percezione dei cittadini. Le persone adesso sono esasperate e questa esasperazione si riverbera pesantemente su chi fa il nostro mestiere. Quando chiamiamo una persona per dirle che deve stare in isolamento, mentre invece vorrebbe andare a lavorare, portare i figli a scuola, o semplicemente andare a farsi una passeggiata, le reazioni sono a volte dure. Non è facile per noi. Questa situazione dura da tanto tempo, ha sfiancato tutti.”

La chiamano pandemic fatigue.

“Certo. Era una cosa attesa. È noto che ci sono queste conseguenze. Siamo preparati a fronteggiare anche questo. Ma, ripeto, non è facile.”

Che cosa ci aspetta adesso? Lei non ha la palla di vetro, ma dal suo osservatorio vede un po’ più lontano di noi.

“In questo momento ci sono elementi di preoccupazione. Ci sono queste varianti, in particolare la variante inglese, che porta a una diffusione più rapida del virus perché la sua carica virale è più alta e dura più a lungo. Quindi una persona infetta può contagiare un maggior numero di persone rispetto al virus cui eravamo abituati. Questa situazione dunque presenta elementi di pericolosità da tenere sotto controllo. Al momento non abbiamo chiari segnali che la situazione stia peggiorando a Ravenna, ma non ci sono nemmeno segnali che stia migliorando. Il numero dei casi continua ad essere troppo alto. Dopo una fase discendente importante in gennaio, la curva dei contagi si è stabilizzata e anzi tende leggermente a risalire. Questa cosa non lascia tranquilli.”

La strategia delle fasce di colore, giallo, arancione, rosso, delle aperture e delle chiusure dei territori a questo punto la convince?

“Non del tutto. La strategia di chiudere e poi riaprire quando si è abbassato un po’ l’RT per poi chiudere ancora, forse non è la strategia migliore. Anche se per fortuna non le devo fare io le strategie di chiusura o di apertura, perché è una grande responsabilità e qualsiasi scelta si faccia si scontenta sempre qualcuno.”

Quali sono invece i segnali positivi?

“Grazie alla campagna vaccinale sono molto pochi gli operatori sanitari che si ammalano. Questo vuol dire che la campagna vaccinale funziona, perché i sanitari sono stati i primi ad essere vaccinati con le due dosi. Eravamo abituati a 150 sanitari ammalati mediamente in una certa unità di tempo, adesso ne abbiamo meno di 20. E siccome stiamo in questi giorni finendo la vaccinazione con le seconde dosi delle case di riposo, questo ci consente di guardare con più tranquillità anche al futuro dei nostri anziani. Perché se il virus circola ancora e attacca una persona vaccinata non provoca i danni gravi a cui eravamo abituati.”

La campagna vaccinale procede a rilento.

“Se arrivassero più vaccini andremmo più veloci. Noi siamo rapidi a usare tutti quelli che arrivano. Se ne arrivassero di più saremmo in grado di vaccinare più persone. Ma non dipende da noi.”

La campagna degli over 80 quando sarà terminata?

“Dipende sempre dalle forniture. Non posso dirle una data, perché non sappiamo ancora quali saranno le prossime forniture, le conosciamo solo con poco anticipo. Ripeto, se arrivano i vaccini noi siamo in grado di fare molto di più.”

Se arrivano i vaccini, ce la faremo a vaccinare tutti entro la fine dell’estate?

“Se arrivano i vaccini sì, potenzialmente siamo in grado di farcela. Poi adesso si potenzierà ancora la macchina del piano vaccini. A giorni partono i medici di medicina generale per vaccinare gli insegnanti. Aumenta la platea dei vaccinatori e quindi dei potenziali vaccinati.”

Quindi entro l’estate forse tutti vaccinati, ma nel frattempo tutti protetti finché non abbiamo raggiunto l’immunità di gregge?

“Assolutamente sì. Io mi sono vaccinata ma continuo a usare sempre le stesse precauzioni. Comunque, se procede il piano vaccinale nazionale che tende a mettere al sicuro per prime le categorie più fragili, credo che la situazione andrà migliorando. Perlomeno la gravità del quadro della pandemia e della patologia si ridurrà fortemente. Vede, l’effetto più drammatico di questa malattia è che infettandosi tante persone contemporaneamente anche in forma grave, si arriva alla saturazione degli ospedali, con la situazione drammatica che a marzo abbiamo visto a Bergamo. Noi per fortuna non siamo mai arrivati a quel punto lì. E per esempio in Romagna nella seconda ondata i nostri ospedali non hanno mai smesso di erogare le prestazioni fondamentali e urgenti per le altre patologie.”

Possiamo chiudere con una nota di ottimismo?

“Adesso si è imboccata una strada che ci fa vedere la luce in fondo al tunnel. L’importante è che le persone non cedano e non abbassino la guardia proprio nell’ultimo miglio, a un passo dal traguardo. Teniamo botta.”

Vaccino

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