“Va Pensiero” sulle ali della responsabilità e della legalità. Se ne è discusso all’Alighieri

L'incontro “Istituzioni e cittadini: riflessioni sulla legalità”, in margine all'ultima rappresentazione dello spettacolo delle Albe

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Si è parlato di mafia, di crisi della politica, di giornalisti “con la schiena dritta” e tanto altro ieri sera – giovedì 14 dicembre – alla sala Corelli del Teatro Alighieri di Ravenna, in un confronto dal titolo “Istituzioni e cittadini: riflessioni sulla legalità”, che ha preso le mosse dallo spettacolo delle Albe “Va Pensiero”, ieri sera appunto in ultima replica a Ravenna. 

Ad affrontare temi non facili coordinati da Carmelo Domini giornalista del Corriere Romagna, sono stati il sindaco di Ravenna, Michele de Pascale, l’assessore regionale alla Cultura e alle politiche per la Legalità, Massimo Mezzetti, il comandante della Polizia municipale di Ravenna Andrea Giacomini, il drammaturgo e regista delle Albe Marco Martinelli e Donato Ungaro, giornalista ed ex vigile urbano del Comune di Brescello. Quest’ultimo in particolare, dice Ermanna Montanari nel corso di un breve saluto ai presenti prima di lasciare la sala per andare a prepararsi per lo spettacolo, è stato “la miccia” per “Va Pensiero”.

La storia di Vincenzo Benedetti il vigile urbano di una piccola città dell’Emilia Romagna che si fa licenziare pur di non chiudere gli occhi di fronte agli intrecci di mafia, politica ed economia collusa che intaccano il tessuto sociale della comunità è, di fatto, la sua storia. Ed è proprio dalla testimonianza di Ungaro che parte il confronto. “Non ho fatto nulla di speciale” dice schermendosi. Poi citando Giorgio Perlasca intervistato da Minà: “Al mio posto cosa avrebbe fatto?”. Ungaro racconta quindi di quando faceva il vigile urbano a Brescello – Comune in provincia di Reggio Emilia con poco più di 5.600 abitanti – e collaborava, autorizzato dal Comune, con la Gazzetta di Reggio. Un permesso concesso più che volentieri anche se il vigile urbano-giornalista fin da subito mette le cose in chiaro: “Non voglio essere l’Emilio Fede del Comune”. Detto fatto: è il giornalismo d’inchiesta il suo terreno.

Quando Donato Ungaro si accorge che “c’era qualcosa che non funzionava”, a Brescello e in Regione – erano i primi anni Duemila – parlare di mafia nella ridente ed operosa Emilia Romagna era impensabile. Nel 2002 il sindaco di Brescello, Ermes Coffrini, lo licenzia sostenendo che il doppio mestiere (autorizzato) possa portarlo a rivelare “segreti”. Nell’estate 2015 la Corte di Cassazione ha riconosciuto come illegittimo il suo licenziamento. Il racconto della sua esperienza è sintetizzato una parola: solitudine. La solitudine dell’ex vigile urbano: “Nessuno si è stracciato le vesti perché sono stato licenziato”. La solitudine del giornalista che si occupa di temi difficili da far digerire, “di essere una voce che urla nel deserto”.

 

Nel suo contributo al confronto l’assessore regionale Mezzetti parla, fra l’altro, di cittadinanza responsabile, di etica della responsabilità individuale. Senza di questa, dice, “è difficile costruire un’etica pubblica”. Ciascuno nel “suo piccolo”, può e deve fare qualcosa. E si deve andare nelle scuole, a discutere con i ragazzi per fare crescere la cultura della legalità. Entrando nel merito del fenomeno mafioso nel territorio emiliano romagnolo, l’assessore sottolinea che il processo Aemilia “ci offre uno spaccato parziale” di un fenomeno che è più diffuso, anche se ha avuto sicuramente il pregio “di squarciare il velo di silenzio”. “La mafia in Emilia Romagna – sottolinea l’assessore regionale – non si è insediata in modo classico, ha cercato la complicità del mondo economico per arrivare alla politica”.

Non è semplice capire fino a che punto la mafia si sia inserita nel nostro territorio, perché la “mafia – afferma il comandante della Municipale di Ravenna Andrea Giacomini – ha cambiato faccia, si inserisce nella zona grigia della nostra società”.

Il sindaco di Ravenna Michele de Pascale mette in luce due aspetti. Se da un lato nell’atteggiamento che ha portato fino a non molto tempo fa ad ignorare la presenza della criminalità organizzata nei nostri territori c’è anche una forma “incolpevole” di orgoglio, “non ci si crede finché non si vede”, c’è anche l’aspetto opposto: “quello di dire che tutto è mafia, appoggiandosi sul discredito profondo su tutto ciò che è politica, istituzioni”. Per i sindaci insomma non è semplice muoversi in questo clima di sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni che “finisce per deprimere tutto il tessuto sociale ed economico della comunità”.

 

Riflessione che trova d’accordo Marco Martinelli che, a sua volta, sottolinea la difficoltà di “essere politico oggi: l’immagine che si respira nel paese è che la politica è corruzione”. A proposito di “Va Pensiero” dice poi che inizialmente doveva essere un’opera su Verdi. Il Verdi trentenne, colpito da dolorosi lutti familiari e dall’insuccesso dei suoi primi lavori. In quel momento di disperazione Verdi scrive “Il Nabucco” che contiene la famosa aria “Va Pensiero” – che secondo il drammaturgo e regista ravennate è il vero inno d’Italia – “un canto di resistenza morale, politica e spirituale”.

Verdi in quella fase della sua vita, è il prototipo dei “giovani d’oggi che non hanno un lavoro, una prospettiva. La nostra generazione – dice Martinelli – è cresciuta con una convinzione: quella di una società che si poteva trasformare. Questa convinzione la maggioranza dei giovani di oggi non ce l’ha più. Non c’è più il pensiero di prospettiva di un popolo”. In “questo disastro” si inserisce la mafia. E il caso aggiunge “ci fa incontrare Donato”. Da Martinelli, reduce del trionfale successo dell’Inferno che ha coinvolto centinaia di ravennati, un piccolo suggerimento alla politica: ricostruire il rapporto fra cittadini e istituzioni, magari con una chiamata pubblica per una cittadinanza consapevole.

 

A cura di Ro. Em.

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