Processo Cagnoni: come in un talk show l’imputato risponde e dice “non sono io il mostro”

Folla all'udienza di ieri. Le risposte di Cagnoni si sono rivelate spesso poco convincenti, in certi casi fantasiose e contraddittorie. L’udienza è stata aggiornata a lunedì pomeriggio, 26 marzo, alle 14

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“Non sono io il mostro che ha ucciso Giulia”. Ieri, venerdì 23 marzo, nell’aula di Corte d’Assise del Tribunale di Ravenna, diciannovesima udienza del processo a Matteo Cagnoni accusato del femminicidio della moglie Giulia Ballestri e giornata interamente dedicata all’esame dell’imputato che racconta la sua verità. Il dermatologo ha risposto alle domande della Pubblica Ministero, la dottoressa Cristina D’Aniello – affiancata per una parte dell’udienza dal Procuratore Capo Mancini Alessandro Mancini – e delle parti civili per più di sette ore. L’udienza, terminata poco dopo le 18, è stata poi aggiornata a lunedì pomeriggio, 26 marzo, alle 14.

In quell’occasione sarà il difensore, l’avvocato Giovanni Trombini ad interrogare il suo assistito poi toccherà nuovamente alla Pubblica Accusa per l’eventuale controesame.

 

 

COME IN UN TALK SHOW E TANTE CONTRADDIZIONI

Come era prevedibile, il “giorno di Cagnoni” ha segnato il picco dell’audience del processo: tantissima gente ha affollato l’aula. Presenti anche una ventina di studenti di Giurisprudenza. In giacca e cravatta, microfono in mano, come l’ospite di un talk show televisivo, l’imputato, ha subito specificato di volere rispondere alle domande. Cosa che non ha mancato di fare, anche se le sue risposte si sono rivelate spesso poco convincenti, in certi casi fantasiose e contraddittorie. Difficile riassumere la lunga giornata. Le domande della PM sono tornate su vari elementi emersi nel corso del processo che costituiscono l’ossatura dell’ipotesi accusatoria. Lo stesso ha fatto il legale di parte civile per conto della famiglia, l’avvocato Giovanni Scudellari. Cerchiamo di limitarci agli elementi principali.

L’esame della PM Cristina D’Aniello, come al solito determinata ed efficace, inizia con una domanda tesa a ricostruire gli ultimi istanti di vita della vittima riandando alla tragica giornata del 16 settembre 2016: “Quand’è l’ultima volta che ha visto Giulia Ballestri?”, domanda all’imputato. Cagnoni dice di averla incontrata casualmente quindici minuti dopo mezzogiorno, nel parcheggio di fronte alla loro abitazione di via Giordano Bruno, dopo che sarebbero tornati ciascuno per conto proprio dalla casa di via Padre Genocchi. I due, secondo la versione dell’imputato, parlano per pochi istanti, lei conferma di non volere andare a Firenze insieme al marito e ai figli perché preferisce starsene per conto proprio. Lui le dà dei soldi per la spesa, si salutano lui le volta le spalle e non è in grado di dire se Giulia si allontanerà a bordo della Voyager oppure no.

 

 

NELLA VILLA E GLI ULTIMI MOMENTI

La PM torna più volte a quella giornata del 16 settembre. I due sono nella villa di Padre Genocchi per fotografare il quadro di Samorì, la cui foto fatta con il cellulare dovrà essere mandata ad un mercante d’arte. Giulia riceve due telefonate: alla prima, sostiene l’imputato, la moglie risponde ma cade la linea. Alla seconda lei dice: “Sta arrivando” e lui pensa che stia parlando con l’impiegata del centro antidiabetico dove il padre si reca periodicamente. Si confonde sugli orari. Prima dice alle 11 o poco dopo. Poi si corregge: le due chiamate, come dimostrano anche i tabulati, avvengono un’ora prima.

“Se io le dico – interviene la PM – che dal tabulato telefonico le due telefonate vanno nella segreteria telefonica lei mi sa dare una spiegazione?” “La mia memoria mi dice questo”, taglia corto l’imputato. Stando a Cagnoni lui e la moglie ad un certo punto escono fuori in giardino. Lui le chiede di spegnere il telefonino così riescono a parlare meglio. Poi le loro strade si dividono: Giulia, dice l’imputato, va verso i giardini pubblici e lui sale in macchina per andare verso casa. La PM chiede a Cagnoni se ha portato via qualcosa dalla casa e lui risponde di no. La dottoressa D’Aniello ricorda che il video del sistema di videosorveglianza della caserma della Guardia di Finanza lo riprende mentre fa manovra e rimane nei pressi della casa un minuto e 7 secondi. “Guardavo Giulia allontanarsi – racconta Cagnoni – pensavo al nostro matrimonio finito. Un momento intenso”.

Poi l’imputato torna nella casa di via Giordano Bruno, si fa la doccia e si cambia d’abito. Niente di strano, assicura: “Io mi faccio la doccia 2, 3 volte al giorno. D’estate anche quattro, mi piace essere in ordine”.

 

L’ATTACCO DI PANICO E LA FUGA

Un lungo capitolo riguarda il tema degli attacchi di panico: una sorta di malattia della famiglia Cagnoni e l’imputato dice di soffrirne da vent’anni. Chi ha seguito le udienze del processo e le cronache sui giornali, ricorda la fuga di Cagnoni dalla finestra della villa dei genitori di Firenze all’arrivo dei poliziotti. È la notte di domenica 18 settembre 2016 e lui è tornato da Bologna dove è andato a parlare con il suo legale, l’avvocato Giovanni Trombini. Lui la racconta così: “Ero in salotto con mia madre quando sento dei rumori. Mia madre dice: saranno dei cani. Guardo fuori: vedo sette, otto persone che urlano con le pistole in mano. Sento un calore che dallo stomaco mi arriva al cervello”.

L’imputato si lascia sfuggire rivolto alla madre: “Pensano che sia stato io”. Ma al momento del blitz dei “Falchi” di Firenze, non si ha ancora la notizia del ritrovamento del corpo senza vita della moglie. A che cosa si riferisce quindi Cagnoni? L’imputato minimizza. Non è che “una semplice deduzione: nella villa di via Padre Genocchi c’è la Scientifica e ho pensato che fosse successo qualcosa a Giulia”. Fatto sta che quando salta dalla finestra, la crisi di panico è all’apice. Al contrario è risolta quando decide di tornare a casa, qualche ora dopo e di riconsegnarsi alla polizia.

Quando torna il corpo senza vita di Giulia è stato trovato e lui viene fermato. “Uno dei Falchi mi disse: se tu non centri nell’omicidio di tua moglie io mi faccio prete”.

Il racconto di Cagnoni è popolato di poliziotti “buoni” e di poliziotti “cattivi” come nei film americani. Ci sono i “Falchi” tendenzialmente gentili. C’è il poliziotto della volante che gli piazza un calcio con l’anfibio su una tempia. C’è l’ispettore della Questura di Ravenna che lo invita con “tono mellifluo” a tornare nella città bizantina nella notte di domenica per fare una firma: fino a quel momento Giulia è una donna scomparsa da casa. E fino a quel momento Cagnoni appare, per sua stessa ammissione, più seccato che preoccupato del fatto che Giulia non si fa trovare e non risponde neppure ai figli, convinto com’è che la moglie sia impegnata in un fine settimana romantico e che la suocera e il cognato la vogliano in qualche coprire.

 

 

IL SANGUE DI GIULIA

La PM passa poi ad affrontare gli elementi cruciali della tesi dell’accusa, quelli che più di altri sembrano inchiodare l’imputato alle proprie responsabilità: le macchie di sangue di Giulia trovate sui cuscini di due poltroncine del pianerottolo della villa dell’omicidio, sui jeans dell’imputato, sulla maniglia del portellone posteriore della sua auto e sul vetro di una torcia trovata al suo interno. A questo proposito l’imputato Cagnoni fornisce varie versioni, quasi tutte abbastanza curiose. Una decisamente sintetica. I cuscini. È lui stesso, dice, ad averli messi in macchina l’8 settembre, sotto la supervisione della moglie. “Giulia mi disse che erano sporchi. Mi ricordo che era l’8 settembre perché abbiamo fatto un collegamento strano con l’armistizio, ne abbiamo parlato”.

La PM: “Perché si trova il sangue di Giulia su quei cuscini?”. L’imputato dice che non ha niente a che fare con l’omicidio, ma piuttosto con un presunto rapporto con un altro uomo che Giulia potrebbe avere avuto nella villa. Il sangue della vittima sui jeans, sulla torcia e sulla maniglia del portellone posteriore dell’auto di Cagnoni sarebbero invece frutto di una curiosa catena di eventi. Marina Romea, luglio 2016. Matteo e Giulia tornano dal supermercato. Quest’ultima vuole togliere degli aghi di pino che si sono accumulati sotto il tergicristallo del lunotto posteriore dell’auto. Sotto gli aghi di pino trova però una spiacevole sorpresa: un triangolo di vetro che qualcuno avrebbe incollato: “Ho pensato che fosse un regalino per me”, afferma sibillino l’imputato. Giulia si taglia un dito che comincia a sanguinare copiosamente e il piccolo infortunio causa come si diceva un curioso effetto domino. Per tamponare il sangue della ferita cercano dei fazzolettini nel cruscotto dove c’è la torcia che viene cosi imbrattata di sangue. Poi Giulia e marito entrano in casa e quest’ultimo gli sutura la ferita sul tavolo della cucina e qualche macchia di sangue finisce sui jeans che saranno sequestrati dalla polizia nella casa di Firenze.

Ma come fanno a finire i jeans nella casa dei genitori dell’imputato una ventina di giorni dopo e soprattutto senza essere stati lavati? “La cosa strana – racconta – è che non sembrano così sporchi”, fatto sta che la signora che fa le faccende di casa li trova sul letto e li rimette nell’armadio.

La PM passa poi ad esaminare il tema delle impronte dei palmi delle mani intrise sempre nel sangue di Giulia trovate in uno spigolo di muro e nel frigorifero nella casa di via Padre Genocchi. I tecnici della Polizia scientifica, i consulenti dell’Accusa e della Parte civile, sulla base dei punti di contatto trovati, sostengono senza ombra di dubbio che queste sono le impronte delle mani di Cagnoni. Qui l’imputato non sembra molto a suo agio: “Posso solo dire che non sono le mie”, dice ribadendo la sua innocenza.

Il dna di Cagnoni trovato sul bastone di legno di pino utilizzato per colpire Giulia nella prima fase dell’aggressione. Anche in questo caso l’imputato ha una sua spiegazione che lo rende estraneo al delitto: il suo dna sarebbe rimasto durante il trasbordo del legno derivante dal taglio di alcuni pini nella casa di Marina Romea nel garage dell’appartamento di Ravenna. Quel bastone comunque lo avrebbe portato Giulia nella casa di via Padre Genocchi, come strumento di difesa.

 

LA TESI DEI LADRI ACROBATI

E poi la borsa bianca di Giulia che indossava il giorno del delitto e che non è stata mai trovata. Tornando ai video tratti dal sistema di videosorveglianza della villa dei genitori di Firenze, la PM ricorda l’oggetto bianco compatibile appunto con la borsa in questione messo in un sacchetto come tanti oggetti tolti dal bagagliaio dell’auto, portati dietro una siepe e poi imbustati dentro alcuni sacchetti dell’immondizia e rimessi nel bagagliaio. “Ho smaltito tanta di quella roba in quei giorni!”, risponde Matteo Cagnoni, negando che si tratti degli abiti indossati da Giulia e dei suoi oggetti personali che indossava il giorno del delitto che non sono stati mai trovati.

La presunta borsa bianca sarebbe invece “un cuscino a fisarmonica” di sua nonna. Cagnoni, com’è noto, ha anche una sua tesi su chi è stato ad uccidere Giulia e ieri lo ha ribadito. Ricorda la famosa finestra rimasta aperta nella villa del delitto, tira in ballo i ladri acrobati, “gli immigrati strafatti di coca che vanno nelle case e massacrano i vecchietti” perché “la cocaina sprigiona effetti inauditi”.

La sua ipotesi è che qualcuno sia entrato da quella finestra aperta e che Giulia che è una ragazza forte fisicamente abbia avuto una reazione, utilizzando il bastone. Lui è rimasto colpito dalla brutalità dell’assassinio della moglie, “ma il mostro – ripete – non sono io”.

 

Ro. Em.

 

 

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