Processo Cagnoni. 22 giugno 2018: giustizia è fatta. L’imputato è colpevole, il ricorso scontato

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Dopo nove mesi, ventinove giornate di udienza, si sono spenti i riflettori sul processo per il femminicidio di Giulia Ballestri. Il marito, il dermatologo ravennate Matteo Cagnoni è stato condannato: dovrà scontare il massimo della pena previsto dal nostro codice penale, l’ergastolo. Per nove mesi, una volta alla settimana, l’aula della Corte d’Assise di Ravenna si è riempita di gente. Ieri per l’ultima giornata di udienza sono tornate le tv nazionali, le dirette televisive. Adesso le luci sono spente e il clamore mediatico è destinato a scemare nei prossimi giorni. 

In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza che saranno depositate in cancelleria entro i canonici 90 giorni, aspettando l’annunciato ricorso in appello dei due difensori di Cagnoni, gli avvocati Trombini e Dalaiti, cogliamo l’occasione per svolgere qualche considerazione.

 

La sentenza: omicidio volontario pluriaggravato

Al termine della sua puntuale e appassionata requisitoria, la PM Cristina D’Aniello aveva chiesto la condanna dell’imputato all’ergastolo ed ergastolo è stato. La Corte invece non ha accolto la richiesta dell’Accusa di condannare l’imputato anche ad un anno di isolamento diurno. Accolte anche le richieste di risarcimento di tutte le parti civili presenti nel processo. La sentenza prevede una liquidazione di 20.000 euro per il Comune di Ravenna e di 10.000 euro per ciascuna delle tre associazioni: Udi, Linea Rosa e Dalla parte dei minori, liquidando a favore dei genitori della vittima una provvisionale di 500.000 euro ciascuno, una provvisionale di 150.000 euro per il fratello Guido e un milione di euro per ciascuno dei tre figli. Cagnoni dovrà anche pagare le spese processuali, comprese quelle delle parti civili. La sentenza prevede poi la sua interdizione perpetua dai pubblici uffici, nonché la sospensione della patria potestà per tutta la durata della pena.

La lettura del dispositivo è stata accolta con emozione trattenuta dal pubblico presente e con aria impenetrabile da Cagnoni che è stato subito portato via dagli agenti penitenziari. Una sentenza giusta: hanno detto molti dei presenti. Nel dispositivo della sentenza si parla di “omicidio volontario pluriaggravato”: il termine femminicidio fatica a farsi strada nelle aule di giustizia e anche nel linguaggio comune delle persone. Ma mai come in questo processo di questa parola si è colto il senso. Con femminicidio, afferma la scrittrice Michela Murgia, non si indica solo il sesso della vittima, ma il motivo per cui è stata uccisa.

“Il problema – ha sottolineato la PM nella sua requisitoria affrontando il tema del movente – era che Giulia se ne voleva andare”. Uno degli elementi caratterizzanti questo processo è stata la folta presenza di pubblico: qualche osservatore esterno ha ravvisato in questa partecipazione della morbosità. Il rischio dell’effetto fiction, in effetti, era dietro l’angolo: lei bella e fragile, lui dermatologo di successo, entrambi figli di famiglie benestanti molto conosciute in città. Non siamo in grado di dire quante o quanti abbiano guardato il video del sopralluogo nella villa, il corpo martoriato di Giulia Ballestri, con orrore e dolore sinceri e non come un episodio di Csi. Abbiamo apprezzato, la richiesta della PM Cristina D’Aniello di non mostrare questo video pubblicamente in aula (richiesta non accolta dalla Corte) e anche la sua scelta, coerente con questa richiesta, di non utilizzarlo durante la sua requisitoria. Un segno di profondo rispetto nei confronti di Giulia di cui la dottoressa D’Aniello è stata la voce in questo processo.

Non sappiamo quanto abbia pesato, in questa partecipazione, la curiosità, la grancassa dei media per usare un termine caro ai difensori di Cagnoni. Noi pensiamo che questo processo sia stato anche un’occasione di presa di coscienza, di consapevolezza. Ieri molte signore si sono presentate in aula indossando scarpe rosse simbolo della lotta contro la violenza sulle donne e il femminicidio. C’è stata anche una quota di partecipazione “militante” che ha visto fra le parti civili due associazioni da sempre impegnate a fare crescere una cultura di parità di genere, a mettere in campo azioni di tutela dei diritti delle donne come la storica Udi e Linea Rosa. I risarcimenti saranno utilizzati per creare nuovi progetti.

 

Giulia, una di noi, purtroppo una di meno

Parliamo di Giulia. L’avvocato Giovanni Scudellari, legale di parte civile per conto della famiglia, nella sua appassionata e commovente arringa ha detto di averla conosciuta in questo processo. È accaduto anche a noi. Abbiamo seguito Giulia nella sua ricerca di una stanza tutta per sé, di uno spazio dove potersi esprimere e respirare, nel suo desiderio di essere felice con un nuovo compagno. Un percorso di emancipazione, un tentativo di uscire da un ruolo di moglie accondiscendente che non riusciva più interpretare e che Giulia ha pagato molto caro. Nella sua storia ricostruita attraverso le testimonianze, i messaggi inviati su Whatsapp e Instagram al fidanzato abbiamo vissuto brandelli delle nostre storie, abbiamo rivisto situazioni a noi familiari. “Siamo tutte Giulia”: scrive la giornalista e scrittrice Carla Baroncelli in una delle sue “Ombre di un processo”.

Sì, è vero, abbiamo scoperto di essere tutte un po’ lei e Giulia è una di meno di noi, è una di quelle 116 donne che nel 2016 sono state uccise da un marito, da un ex compagno, da un fidanzato. Ed ancora: Giulia non è l’unica vittima di questo femminicidio, lo sono insieme a lei anche i suoi tre bambini. Si è cercato di proteggerli come si è potuto dall’inevitabile impatto mediatico, escludendo le telecamere nel corso delle udienze, limitando la presenza in aula di fotografi e cineoperatori. Un importante atto di sensibilità della Corte. Ma non è difficile immaginare cosa si agita nella mente e nel cuore di questi tre bambini: prima la madre strappata ai loro abbracci, poi il padre imputato e ora condannato in primo grado al carcere a vita per averla uccisa. La speranza è che possano comunque recuperare un po’ di infanzia e di spensieratezza: ieri sicuramente hanno vissuto un’altra giornata molto difficile della loro vita fin qui molto breve ma già molto complicata.

Abbiamo infine imparato alcune cose in questo processo. Una in particolare non ci è piaciuta affatto: la crudeltà secondo il codice penale sarebbe un elemento soggettivo. Nella sua arringa difensiva tutta tesa ad alleggerire Cagnoni del suo carico di aggravanti, l’avvocato Dalaiti riferendosi all’omicidio di Giulia parla di un’azione efferata e violenta “ma non crudele”. Non sarebbe insomma crudele condannare una persona (come è avvenuto per Giulia Ballestri) ad una agonia lenta, dopo averle sbriciolato la faccia contro il muro, e prima ancora averla aggredita con un bastone. Tutti questi elementi, secondo il difensore, esprimono “un disperato tentativo di portare a termine ‘l’azione”, in questo caso il femminicidio, ma non sono espressione di crudeltà. I colpi inflitti a Giulia “sono finalizzati ad ucciderla, non a causargli sofferenze”.

“Giulia – rincara la dose l’avvocato Dalaiti – era una donna forte, in grado di difendersi”, questo avrebbe reso l’azione del suo assassino più disperata. Non si tratta se la vittima è uomo o donna: questa definizione di crudeltà ci rende perplessi a prescindere. Perché? Perché sembra alzare il limite, anzi non porre limiti alla crudeltà umana.

 

Ro. Em.

 

 

Matteo Cagnoni abbraccia il suo avvocato difensore Giovanni Trombini

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