Giustizia e violenza di genere. Un quadro fra luci e tante ombre nell’incontro promosso dall’Udi

Più informazioni su

Sullo schermo nell’aula di Corte d’Assise di Ravenna, scorrono le immagini in bianco e nero un po’ sfuocate di alcuni stralci di “Processo per stupro”, il primo documentario su un tema così delicato mandato in onda dalla Rai. E nonostante siano passati quarant’anni il documentario, girato nel tribunale di Latina, continua ad avere un impatto sconvolgente. Le immagini del “Processo per stupro” hanno introdotto ieri pomeriggio il convegno su “Reati di violenza di genere e pratiche processuali. Evoluzioni normative e giuridiche dal massacro del Circeo a oggi” organizzato dall’Udi Ravenna in collaborazione con la Casa delle Donne e il patrocinio del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Ravenna nell’ambito della rassegna “Una società per relazioni” promossa dal Comune di Ravenna

Dopo il breve intervento dell’avvocata Sonia Lama che ha illustrato il programma dei lavori, e i saluti istituzionali dell’assessora del Comune di Ravenna Ouidad Bakkali e del presidente dell’Ordine degli Avvocati Mauro Cellarosi, si è entrati nel vivo con la proiezione appunto del video su quel processo che a suo tempo tanto fece discutere. Quello a cui si assiste, in un silenzio totale, è purtroppo uno spettacolo avvilente che mostra quel capovolgimento di ruoli tutt’altro che insolito nei processi per violenza sessuale: la vittima che diventa imputata. Da quel processo si diceva, sono passati quarant’anni. Dal massacro del Circeo che diede vita a quel dibattito politico che portò alla riforma del 1996 è trascorso qualche anno in più. Fino a che punto le cose adesso sono cambiate?

In realtà il convegno disegna un quadro dove le ombre prevalgono sulle luci: la strada è ancora lunga e accidentata. Nella sua premessa, la dottoressa Stefania Guglielmi, avvocata del foro di Ferrara e responsabile del Tavolo di lavoro Giustizia nazionale dell’Udi che ha il compito di moderare l’evento introduce il tema del linguaggio. In questi anni, dice, la critica femminista non si è mai arrestata. Ed è stata rivolta in particolare verso quella mistificazione del neutro che caratterizza la società. Un neutro che sottende un soggetto maschile. Lo stesso linguaggio che permea la Costituzione, dove l’unico articolo che fa riferimento alle donne è il 37 ed è stato fortissimamente voluto dalle pochissime donne che fecero parte della Costituente. Lo stesso vale per il diritto.

 

FEMMINICIDIO NON È UNA PAROLACCIA

Ormai la parola femminicidio è entrata a far parte del linguaggio comune, ma neppure tanto tempo fa, ricorda, questa parola veniva considerata “una parolaccia, faceva quasi paura”. Perché invece questa parola è importante? “Perché nel femminicidio c’è una relazione di potere che viene messa in gioco e da qui dobbiamo partire”. La prima relazione è della dottoressa Cristina D’Aniello, sostituto procuratore della Repubblica di Ravenna. La Pm del processo per il femminicidio di Giulia Ballestri che ha portato alla condanna all’ergastolo in primo grado del marito Matteo Cagnoni, ha il compito di parlare “dell’evoluzione della fattispecie di reato di violenza sessuale: da reato contro la morale e a crimine contro la persona”.

Sia il processo di Latina del 1978, che il massacro del Circeo a cui il convegno stesso si richiama, dice, la coinvolgono emotivamente. “Io – spiega – pur vivendo da tempo a Ravenna, sono originaria di Latina e la cosa che mi ha emozionato è che mio padre, che è carabiniere in pensione, si occupò delle indagini di ambedue i fatti di cronaca. Ho fatto pratica in quelle aule di giustizia, e vi posso assicurare che quel clima non si è chiuso con quel processo e neppure nel 1996 con la riforma dei reati di violenza sessuale. È un clima che ha aleggiato per molti anni in quelle aule e non solo”.

Il tema del convegno è un prezioso momento di riflessione “perché mai quanto in materia di reati di violenza sessuale l’interpretazione data dai giudici è servita a colmare alcune lacune e a rendere la normativa più aderente alla società in cui noi viviamo”. A sua volta parla dell’importanza del linguaggio e a questo proposito racconta un episodio della sua vita professionale. “Un po’ di anni fa partecipai ad un convegno sulla violenza di genere. In quell’occasione era presente la mamma di una donna uccisa dal marito. Io dissi una frase in cui parlai di amore malato e lei mi riprese: ‘Quello non era amore, era solo violenza, era solo odio’. Quell’insegnamento mi è rimasto dentro”.

 

DA REATI CONTRO LA MORALE A REATI CONTRO LA PERSONA

La Pm fa un excursus sui reati di violenza sessuale che prima della riforma del 1996 erano reati contro la moralità. “Questo perché l’ottica era concentrata non sulla persona vittima del reato ma su cosa la sessualità della donna rappresentava in quel contesto storico. Avete sentito ad un certo punto – la dottoressa D’Aniello torna sul video del processo per stupro – che si fa tutta una disquisizione sulla modalità del rapporto sessuale. Non era una perversione da parte dei magistrati del processo, ma era richiesto dall’impianto normativo dell’epoca che distingueva fra violenza carnale e atti di libidine. Ecco perché in queste aule di tribunale c’era questa mortificante istruttoria dibattimentale: la violenza carnale e gli atti di libidine non solo erano reati strutturalmente diversi ma per gli atti di libidine violenta le pene erano ridotte di un terzo”.

Con la riforma del 1996, si passa al reato di violenza sessuale che da reato contro la morale diventa reato contro la persona. Sempre prima della riforma del 1996 esistevano il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, per cui se lo stupratore sposava la donna che aveva violentato, il reato veniva estinto. Franca Viola, ricorda la Pm, si oppose al matrimonio con il suo stupratore. Queste norme furono abrogate nel 1981. Nonostante questo nel 1982 un giudice del tribunale di Bolzano scrive: “..qualche iniziale atto di forza o di violenza da parte dell’uomo secondo una diffusa concezione non costituisce violenza vera e propria dato che la donna, soprattutto tra la popolazione di bassa estrazione sociale e scarso livello culturale, vuole essere conquistata anche in maniere rude magari per crearsi una sorta di alibi al cedimento ai desideri dell’uomo”.

Continuando nel suo excursus dei reati prima della riforma del 1996, la dottoressa D’Aniello ricorda l’abbandono del neonato per causa d’onore: “Abbandonare un neonato frutto di una relazione clandestina era sì un reato, ma la pena doveva essere diminuita perché c’era questa causa d’onore che andava a giustificare un atto così ignobile”. La riforma del 1996 non evita clamorosi scivoloni successivi: tre anni dopo, nel 1999 la Corte di Cassazione emette la tristemente famosa sentenza dei jeans. Cristina D’Aniello chiude il suo intervento leggendo un passo della sentenza per il massacro del Circeo e con il ricordo di Donatella Colasanti “che si finse morta per sopravvivere e visse come se fosse morta per quello che ha subito”. “…fortunatamente per la Colasanti e per la giustizia e sfortunatamente per Izzo e per Guido, la seconda vittima di quello che la stampa nazionale ha subito definito il massacro del Circeo non era morta. E la sua parola implacabile, ferma, coerente veritiera fin nel più piccolo dettaglio non dà loro scampo. Li inchioda alle loro terribili responsabilità, ne mette a nudo la miseria morale… ma soprattutto dimostra il mendacio delle loro tesi difensive”.

Tocca poi alla dottoressa Paola Di Nicola Gip/Gup al Tribunale di Roma entrare nell’altro dei temi trattati nel convegno: “La testimonianza della vittima vulnerabile nel sistema di garanzie processuali. L’acquisizione anticipata della prova: opportunità e prassi a confronto”. Prima di addentrarsi nei temi più tecnici, la dottoressa Di Nicola fa una premessa culturale che richiama avvocati, operatori del diritto alle loro importanti responsabilità. “Abbiamo visto – il riferimento è ancora al video proiettato – un’aula di giustizia nella quale erano rappresentati pregiudizi, stereotipi, modalità difensive, in relazione ad un reato gravissimo. Un’aula di giustizia dove sono state consentite domande che oggi mi auguro, non lo siano più e che troppo spesso invece in alcune aule continuano ad essere ammesse. Se in quell’aula ci sono stati degli avvocati che hanno sostenuto che la vittima fosse l’imputata, è perché ritenevano che quella modalità difensiva potesse essere riconosciuta, accettata, ammessa. Infatti lo è stata. Perché quella pena non è stata assolutamente commisurabile al fatto che era stato contestato. Allora, prima ancora di parlare delle norme, ci tengo a sottolineare il valore simbolico di quello che noi diciamo, affermiamo, scriviamo: pubblici ministeri, avvocati, giudici e non solo anche forze dell’ordine, tutti coloro che entrano in un’aula di giustizia contribuiscono a scrivere la sentenza”.

 

UNA DONNA SU TRE SUBISCE VIOLENZA, MA SOLO UNA SU QUATTORDICI DENUNCIA

Ed ancora: “Le norme esistono dal momento in cui noi le facciamo esistere dal punto di vista non solo tecnico, ma culturale. Quelle modalità, forse non così grezze, ma quelle modalità, continuano a perpetuarsi nelle aule di giustizia del nostro Paese. Scusate – prosegue la dottoressa Di Nicola – se sono così franca e diretta: ma io non ne posso più da giudice di vederlo. Se un terzo delle donne in Italia e nel mondo subisce violenza e di questo terzo solo il 7 per cento denuncia, noi tutti di fronte a questi numeri che urlano ce l’abbiamo”. Secondo la giudice “Dobbiamo partire dal dato di fatto che nei reati di violenza contro le donne nelle aule di giustizia entra il pregiudizio e lo stereotipo. Perché pregiudizi e stereotipi nei confronti delle donne appartengono a ciascuno di noi. Nessuno è escluso, perché pregiudizi e stereotipi appartengono al contesto sociale, culturale, storico, sociale da sempre e per sempre. Perché dal giorno a cui nasciamo a noi donne, quotidianamente ci viene instillato dal contesto sociale e culturale la nostra minorità. Un dato culturale, che parte dal linguaggio che è il massimo esercizio del potere. Se dico voi avvocati includo uomini e donne, se dico avvocate escludo gli uomini da questo solo esempio il femminile è escludente, il femminile non è riconoscibile. Le norme di cui adesso andiamo a parlare si misurano con tutto questo che ho espresso brevemente”.

Fatta questa premessa, la giudice del Tribunale di Roma, sottolinea che “gli strumenti legislativi per combattere la violenza contro le donne ce li abbiamo tutti. Lo Stato ha gli strumenti ma non li sa usare, o forse non sempre li vuole usare. Partiamo dal fatto – aggiunge – che i più importanti strumenti legislativi che abbiamo nascono da obblighi imposti dall’Unione europea. Mentre rispetto alla mafia siamo il Paese più avanti nel mondo,e siamo orgogliosi di questo, in relazione ai reati di violenza possiamo essere molto meno orgogliosi. Perché le norme ci sono state imposte, abbiamo dovuto recepire delle direttive che se non ci fossero state, probabilmente continueremmo ancora con strumenti inadeguati”.

Infine il tema dei maltrattamenti in famiglia è stato affrontato dall’avvocata Rosa Maria Albanese del foro di Ferrara. Un tipo di reato, quest’ultimo, sottolinea l’avvocata, può dirsi a tutti gli effetti un reato di genere, “in quanto un reato che fa emergere significativamente quel potere che nell’ambito delle relazioni di intimità viene adito dagli uomini nei confronti delle donne”. Un reato trasversale, che attraversa tutte le situazioni culturali e sociali. Anche in questo caso, per quanto riguarda la tutela delle vittime, gli strumenti ci sono tutti, ma nei fatti le donne non sono aiutate a denunciare questo tipo di reati. Ci sono gli strumenti, che forse per mancanza di buonsenso o per mancanza di sinergie fra gli operatori putroppo non possiamo dire applicati.

 

A cura di Ro. Em.

Più informazioni su