Sentenza Processo Cagnoni. L’atroce femminicidio di Giulia Ballestri, la colpevolezza e l’ergastolo

La sintesi delle 374 pagine con i motivi che hanno indotto la Corte d’Assise di Ravenna a condannare Matteo Cagnoni al massimo della pena

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Non c’è ombra di dubbio: ad uccidere Giulia Ballestri, quella terribile mattina del 16 settembre 2016, fu il marito, l’ex dermatologo Matteo Cagnoni. Non solo. Fu un femminicidio premeditato e crudele e, dopo la mattanza, l’assassino abbandonò il corpo nella cantina della villa disabitata di via Padre Genocchi tornandovi il giorno dopo per ripulire alla meglio le copiose tracce di sangue. Nelle 374 pagine depositate nella Cancelleria del Tribunale di Ravenna la mattina della vigilia di Natale, sono illustrati i motivi che hanno indotto la Corte d’Assise di Ravenna, il 22 giugno scorso, a condannare in primo grado Matteo Cagnoni al massimo della pena. 

 

Una sentenza in linea con le richieste della PM, la dottoressa Cristina D’Aniello, che prevede risarcimenti per i figli, i genitori, il fratello della vittima e anche per le associazioni (Udi, Linea Rosa, Dalla parte dei minori) e il Comune di Ravenna, parti civili al processo. Il corposo documento redatto dal Giudice Andrea Galanti prende le mosse dallo svolgimento del processo, mette in fila decine e decine di testimonianze, le intercettazioni telefoniche di cui vengono riportati ampi stralci delle trascrizioni, mette a confronto le tesi dei periti: una mole incredibile di materiale che ha contribuito “alla formazione dell’autonomo pensiero” della Corte.

 

Matteo Cagnoni è stato l’ultimo a vedere sua moglie Giulia Ballestri in vita

Sono diversi gli elementi che secondo il Collegio giudicante inchiodano l’ex dermatologo alle sue responsabilità. Matteo Cagnoni è stato l’ultimo a vedere sua moglie Giulia Ballestri in vita. L’ha vista per l’ultima volta nel luogo in cui è stata uccisa, mentendo più volte sul punto, prima in un colloquio telefonico con la suocera, poi innanzi al G.I.P e in dibattimento. Al momento del ritrovamento del cadavere, il cancello e il portone della villa di via Padre Genocchi erano chiusi a chiave e l’allarme inserito. A possedere le chiavi in questione erano in tre: l’anziana custode della villa, Adriana Ricci, Giulia Ballestri e Matteo Cagnoni, gli unici per altro a conoscere anche il codice del sistema dall’allarme.

Giulia si era recata nella villa insieme al marito proprio perché quest’ultimo gliel’aveva chiesto: avrebbero dovuto fotografare alcuni quadri. Cagnoni era con lei all’ora in cui è stata uccisa, come risulta dagli esiti della perizia medico legale “con specifico riferimento alla valutazione complessiva e della caffeina presente nello stomaco della vittima”.

 

L’assassino si è accanito sul corpo e sul volto di Giulia

L’assassino si è accanito sul volto di Giulia, modalità che denuncia “un conflitto personale profondo”, fra la vittima e il suo assassino. “L’unico con un profilo quale quello delineato” era Matteo Cagnoni, “marito separando di Giulia, incapace di concepire una futura possibile felicità della moglie, senza di lui”. L’aver lasciato il cadavere privo di vestiti, scrive Galanti “traccia un ulteriore collegamento personale fra l’assassino e la vittima”.

Il bastone, ovvero l’arma utilizzata per aggredire Giulia, “proviene, inconfutabilmente, dal garage” della casa di via Giordano Bruno e, come è stato appurato nel corso del dibattimento, faceva parte dei residui della potatura di alcuni pini nella villetta di Marina Romea. Il materiale isolato su una delle estremità del bastone (sull’altra estremità c’è il sangue di Giulia), è riconducibile ad una persona di sesso maschile, Matteo Cagnoni o “un suo parente in linea diretta”.

“L’unico maschio della famiglia presente a Ravenna – scrive il giudice Galanti – e contemporaneamente in grado di compiere lo scempio sul corpo di Giulia era Matteo”.

 

Cagnoni e la moglie arrivano insieme alla villa, due ore dopo lui esce da solo

La mattina del 16 settembre 2016, giorno dell’omicidio, il sistema di sicurezza della Guardia di Finanza ritrae Giulia Ballestri e Matteo Cagnoni che arrivano alla villa di via Padre Genocchi a bordo di una Mercedes. Sono circa le 9 e un quarto. Sempre le immagini del sistema di video sorveglianza mostrano il dermatologo che esce dalla villa circa due ore dopo da solo. Cagnoni dopo essere ripartito a bordo della sua auto raggiunge la fine della strada e fa un’inversione di marcia sostando per un minuto sul lato sinistro, davanti alla vecchia casa abbandonata. Cosa avviene in quel minuto di sosta non è possibile saperlo: il sistema di videosorveglianza non riproduce nessuna immagine. Di certo, da quella posizione, non poteva vedere nessuno allontanarsi nei giardini pubblici vicini alla villa.

“Certamente non Giulia che non uscì mai da quel cancello e a quell’ora giaceva, agonizzante e ormai priva di vita, sul pavimento dello scantinato della casa”. L’imputato nel corso dell’interrogatorio in aula aveva invece sostenuto di avere indugiato a guardare la moglie che si stava allontanando verso i giardini nello specchietto retrovisore.

Dopo l’omicidio, l’assassino ha provveduto a una lunga, anche se parziale, attività di pulitura dei locali. L’unico che poteva nutrire questa esigenza era Matteo Cagnoni, “in quanto la disponibilità della villa (escludendo la inoffensiva Ricci Adriana) era esclusivamente a lui riconducibile”. Le due telefonate effettuate il giorno dopo l’omicidio dalla residenza di famiglia di Cagnoni in via Giordano Bruno, “dimostra che Matteo (unico a potervi accedere e privo di telefono cellulare, rimasto a Firenze) era a Ravenna anche sabato 17 settembre fra la tarda mattinata e la metà del pomeriggio”.

A sostegno di questa ipotesi il documento fotografico relativo al navigatore della Chrysler Grand Voyager della famiglia, anche questo acquisito agli atti. “La documentazione – scrive il giudice Galanti – dimostra che l’autovettura ha percorso i suoi ultimi chilometri sabato 17 settembre, con percorrenza esattamente corrispondente alla distanza che separa via Padre Genocchi, da via Giordano Bruno, dove l’auto è stata poi rinvenuta. Solo Matteo poteva averla guidata e solo Matteo l’ha guidata, posto che una delle due chiavi di apertura e accensione del veicolo è stata trovata all’interno dell’abitazione di via Giordano Bruno, mentre l’altra era riposta nel vano portaoggetti della Mercedes Classe C dell’imputato, quindi nella sua individuale disponibilità”.

 

Il tentativo di fuga all’estero abortito e quello dalla Villa di Firenze

Ed ancora: nel pomeriggio di domenica 18 settembre, due giorni dopo il femminicidio, Matteo Cagnoni accompagnato dal padre, si recò prima all’aeroporto di Bologna, rimanendovi per quasi quaranta minuti. Con sé aveva una valigia contenente vestiti (caricata alla partenza da Firenze), il passaporto, le carte di pagamento e 1.530 euro in contanti. L’intento poi abortito, del dermatologo, era quello “di allontanarsi dal territorio nazionale, per ignota destinazione estera, assai verosimilmente non europea”. Uscito dall’aeroporto, sempre in compagnia del padre, poco prima delle 19 di quella domenica sera Matteo Cagnoni incontrò il proprio avvocato penalista, amico di vecchia data, nel centro di Bologna.

“E l’argomento non fu l’allontanamento dal tetto coniugale della moglie (come falsamente accampato dall’imputato), in quanto lo stesso Matteo aveva riferito alla suocera, proprio la mattina della domenica, di avere visto Giulia a Ravenna il giorno precedente, per cui nessun dubbio avrebbe dovuto avere circa un possibile stabile allontanamento della coniuge dall’abitazione famigliare, peraltro esclusa dal grande attaccamento affettivo della stessa per i tre figli”.

Arriviamo alla notte fra il 17 e il 18 settembre. Nei minuti che seguirono l’accesso dei Falchi alla villa e che precedettero la sua fuga, Matteo Cagnoni inviò due messaggi, a una sua amica e alla sua segretaria, alludendo a un evento tragico per annullare gli appuntamenti personali e professionali per il giorno successivo. Il riferimento alla drammaticità del momento certamente non era riferito all’allontanamento di Giulia, del quale Matteo si era disinteressato fino a quel momento, “ma alla sorte della moglie, che lui già conosceva per esserne stato l’artefice”.

Lo stesso tentativo di fuga cominciato con un balzo felino da una finestra al pianterreno della villa paterna di Firenze all’arrivo della Polizia non è certo da attribuire ad un attacco di panico (versione dello stesso Cagnoni) visto che “ancora nulla gli era stato contestato, né vi erano ragioni per ritenere che qualcosa gli sarebbe potuto essere contestato”. Al contrario fu un disegno premeditato: “La sua via di fuga era nella direzione dell’uscita secondaria della parco della casa, proprio dove il padre, quaranta minuti prima (come testimoniano le immagini del sistema di videosorveglianza della villa, ndr) aveva parcheggiato la Mercedes. Di quella vettura le seconde chiavi non sarebbero mai state rinvenute”.

Si è trattato, annota il giudice Galanti di una lunga, avventurosa, preventivata fuga nella campagne della zona collinare sopra Firenze. Una fuga resa difficoltosa dal vicequestore dottoressa Ghizzoni e dei suoi uomini, che “avevano involontariamente sottratto al fuggitivo il precostituito mezzo di fuga, la vettura di suo padre, non più posteggiata nei pressi dell’uscita secondaria della villa, ma ricoverata nel capiente parcheggio interno”.

Mentre il figlio stava cercando di sottrarsi alla Polizia, anche la madre di Matteo, Vanna Costa, era a conoscenza della sorte di Giulia, nonostante ancora nessuno sapesse della sua morte, neppure gli inquirenti. La signora Costa “non poteva avere appreso la notizia se non dal figlio Matteo. Direttamente o per il tramite del marito, appena tornato dall’incontro tenuto, insieme a Matteo, la domenica sera, dal difensore di fiducia”.

 

Ovunque quelle tracce del sangue di Giulia

La perquisizione degli agenti nella villa di Firenze, come è noto, porta al ritrovamento di molto materiale importante. Innanzitutto i due cuscini, appartenenti a due poltroncine della villa di via Genocchi, “non solo intrisi del sangue di Giulia Ballestri, ma anche recanti macchie ematiche che, per forma e ubicazione, si pongono in continuità con quelle, analoghe, presenti sugli schienali, identici per fattura, delle stesse poltroncine… presenti nella casa degli orrori”.

Poi le Timberland di Mario Cagnoni, trovate appena lavate su un termosifone dello studio del professore, “le cui suole corrispondono esattamente alle orme a carro armato rilevate nello scantinato della villa e utilizzate dall’assassino a distanza di ore dall’omicidio, essendo le impronte sovrapposte a macchie di sangue rappreso”. Su queste scarpe, bagnate, ma non perfettamente pulite, “era presente una goccia di sangue, verosimilmente dilavato, della vittima”: evidentemente quando Matteo Cagnoni era tornato, sabato 17 settembre, a Ravenna per tornare sul luogo del delitto, calzava le Timberland del padre.

Ed ancora: nella tasca di un paio di jeans appesi a un attaccapanni esterno all’armadio della camera che ospitava Matteo Cagnoni veniva trovato un frammento di legno del tutto simile a un pezzo di corteccia del bastone utilizzato per l’omicidio; sul fondo dei pantaloni venivano individuate tracce del sangue dilavato di Giulia Ballestri. Tracce di sangue di Giulia sulla maniglia di apertura del vano portaoggetti del baule dell’auto in uso a Cagnoni, su una torcia trovata dietro al sedile del guidatore, in particolare una sull’impugnatura, frammista con il Dna di Matteo, e una, da “strisciamento”, sul vetro. “Nessuna spiegazione alternativa alla sua presenza sul teatro dell’omicidio e al momento dell’omicidio – scrive Galanti – può giustificare tante tracce ematiche nella macchina di Cagnoni”.

Nessuna traccia invece dei vestiti e delle scarpe indossati da Giulia Ballestri e da Matteo Cagnoni il giorno della tragedia: “sono scomparsi, tutti insieme, verosimilmente inghiottiti da quei sacchetti neri, nei quali ha trovato dimora anche la borsa di Giulia, che Matteo ha diligentemente preparato, destinandoli a qualche anonimo cassonetto dei rifiuti, diretti a una ignota discarica”.

 

La pistola fumante: le impronte di Matteo Cagnoni impresse a stampo con il sangue della vittima

Ma sono soprattutto le due impronte palmari, “impresse a stampo con il sangue della vittima l’una su un muro, l’altra sulla superficie di un frigorifero presente sul lato opposto dello stretto corridoio… ricondotte con certezza, senza elementi dissonanti, alla mano destra e alla mano sinistra di Matteo Cagnoni… la firma dell’assassino sull’omicidio”. Ciascuno di questi elementi, scrive Galanti, “pesa come un macigno sugli esiti del giudizio e costituisce prova insuperabile della certa riconducibilità dell’omicidio di Ballestri Giulia a Cagnoni Matteo, esclude qualsiasi possibile diversa ricostruzione del gravissimo episodio delittuoso e appare idoneo, anche da solo considerato, a fondare una pronuncia di penale responsabilità dell’imputato”.

Un capitolo importante viene dedicato alla dinamica del femminicidio. È “altamente verosimile”, si legge nelle motivazioni, che l’aggressione sia iniziata sul ballatoio; lo è altrettanto che il bastone portato in villa il giorno prima del delitto si trovasse proprio nelle immediate vicinanze del ballatoio; è altrettanto molto verosimile che, sfruttando un momento di disattenzione di Giulia, magari impegnata a riposizionare il dipinto fotografato oppure distratta con una scusa, Matteo Cagnoni vibrò i primi colpi al capo della moglie, mentre era girata, “nella parte laterale sinistra”, essendo mancino.

Il documento si sofferma “sulla scelta operata dall’imputato del luogo della dimora ove immortalare il gesto più grave e folle della propria esistenza”, ma anche il luogo in cui è avvenuta la fase iniziale della mattanza: davanti a quei quadri uno in particolare, “Il Narciso” che Giulia, incinta, chiese di portare nella villa abbandonata perché la turbava. Il giudice Galanti ricorda le parole dell’amico psicologo dell’imputato, Giovanni Tadolini che “ha con franchezza descritto, all’udienza dell’1 dicembre 2017, il proprio amico e paziente come un consumato narcisista, vittima dell’esigenza di eccessivamente affermarsi, terrorizzato dalla compromissione della propria immagine, egocentrico e bisognoso in perpetuo di percepire ammirazione”.

La scelta del luogo dove dare inizio al “proprio sfogo assassino, quel palco così teatrale costituito dal ballatoio, ricalca, in una logica sempre tesa ad evocare la grandiosità del gesto, gli attributi comportamentali dell’imputato. In altre parole, si ritiene non sia stata una scelta casuale da parte di Cagnoni bensì un’eco della premeditata opzione omicida”.

 

La caduta dal ballotoio e poi la lunga azione omicida: l’assassino ha volutamente infierito

Nella scansione fatta propria dalla Corte, l’azione delittuosa si sposta dal ballatoio al piano rialzato dove si trova il salone. Quattro le ipotesi possibili che sanciscono questo “cambio di scena”: due quelle ritenute plausibili dal Collegio giudicante. Giulia non sarebbe stata trascinata nel salone (opzione esclusa perché non sono state trovate tracce ematiche di rilievo), ma terrorizzata si sarebbe gettata dal ballatoio, oppure “alcuni colpi ben assestati al capo di Giulia, già riversa sulla bassa ringhiera in legno” l’avrebbero fatta precipitare. Scartata dalla Corte anche la quarta ipotesi: quella che Cagnoni abbia lui stesso gettato la moglie dal ballatoio, perché se così fosse, “non si spiegherebbero le cospicue tracce di sostanza ematica presenti diffusamente sulla parte esterna del parapetto, sia in alto, sia sulle liste di legno, sia sulla parte inferiore”.

Al contrario, la versione fatta propria dai giudici darebbe una spiegazione sufficientemente ragionevole delle tracce di sangue trovate sul tavolino al centro della sala: tracce da caduta dall’alto. Non solo. La caduta dall’alto “potrebbe spiegare le fratture costali del lato sinistro del corpo della vittima, che pare non siano state cagionate da un calcio oppure da un impatto con un corpo contundente”.

Comunque siano andate le cose, la seconda parte dell’azione aggressiva si svolse nel salone. Fu un’azione “lunga”, forse Giulia tentò di fuggire, cercandosi di difendersi facendosi scudo delle poltrone. I colpi inferti furono certamente numerosi, anche se non letali presi singolarmente “perché altrimenti l’azione non sarebbe stata così lunga e protratta. In altre parole, si ritiene che l’esecuzione omicida… abbia indugiato, con spietata violenza, sul corpo forse già esausto ed inerme di Giulia, attingendone brutalmente il volto… zona non immediatamente letale, ma immagine della sua identità”.

La Corte poi arriva “a ritenere verosimile che, in assenza di alcun segno da difesa attiva, Giulia, probabilmente tramortita e priva di coscienza, sia stata posizionata sulla seduta della poltroncina e lì asfissiata, con la mano sinistra, fino a spegnersi; senza morire però. L’imputato deve evidentemente aver ritenuto che fosse morta (certo singolare che un medico possa essersi sbagliato così vistosamente) e quindi abbia trascinato la vittima nello scantinato”. Nello scantinato Giulia riprende i sensi e cerca di fuggire. Il suo tentativo disperato riaccende la violenza.

 

Un delitto premeditato, per lasciare “libera” Giulia

Quello di Giulia fu un delitto premeditato. A questo scopo vengono ricordati alcuni degli eventi avvenuti nei giorni precedenti il 16 settembre. “Il progetto – scrive il giudice Galanti – è maturato certamente prima del 13 settembre 2016”. Quel giorno, mercoledì, era il giorno successivo all’incontro presso lo studio forlivese dell’avvocata Falcini incaricata di seguire le pratiche per la separazione. Giulia non rimase affatto soddisfatta dall’incontro, si confidò con la madre e con il nuovo compagno, poi telefonò all’avvocato Pietro Baccarini, chiedendogli di riassumere la sua difesa.

Scrive il giudice Galanti: “la ferma intenzione di Giulia di farsi tutelare dall’Avv. Baccarini indica chiaramente che quell’incontro non era stato lineare e piano, che aveva ascoltato non le parole della conciliazione e dell’accordo, ma quelle del contrasto, dell’opposizione, del ricatto”. Non solo. Proprio nel corso del viaggio fra Ravenna e Forlì, il marito le aveva comunicato di avere intestato tutte le sue proprietà immobiliari al fratello e che, a una verifica, sarebbe risultato nullatenente. La mattina dopo, il 14 settembre, l’investigatore privato assunto da Cagnoni per controllare Giulia, gli anticipò che la moglie, nonostante gli “accordi”, continuava a incontrare Bezzi annunciandogli per il giorno successivo, una relazione completa. Quello stesso giorno l’imputato telefonò alla Casa di Cura Toniolo di Bologna per disdire le visite fissate nella casa di cura bolognese per la mattina di venerdì 16 settembre, giorno in cui Giulia è stata uccisa, adducendo non specificati “problemi familiari inderogabili”.

Cagnoni si guardò bene dal riferire alla moglie la visita alla villa per fotografare i quadri. Giulia ne venne a conoscenza solo il giorno precedente, tanto che aveva programmato per la mattina del 16 settembre la “bonifica” della propria autovettura (sulla quale erano presenti microspie collocate dal marito) con Bezzi a Forlì. Del resto, dei suoi programmi per l’intero fine settimana, Cagnoni non aveva reso partecipe nessuno, né i figli, che sarebbero dovuti partire il venerdì con lui da Ravenna, né i genitori, che avrebbero dovuto accoglierli lo stesso giorno a Firenze.

Non solo. Nel primo pomeriggio del giovedì 15 settembre 2016 Cagnoni si recò in auto presso la villa di via Padre Genocchi e lì sostò per sette minuti. Di certo il 16 settembre, quando il sistema di videosorveglianza della caserma della Guardia di Finanza riprese Matteo e Giulia mentre stavano per entrare nella villa del bastone non c’è traccia. Infine un ultimo elemento messo in rilievo dalla Corte. I coniugi si avvicinavano alla forzosa fine della loro vita insieme, con uno spirito diametralmente opposto: Cagnoni aveva appena formalizzato la risoluzione del contratto con l’agenzia investigativa dopo aver saputo che sua moglie gli aveva mentito ed aveva rivisto Bezzi di nascosto. Un umore, quello dell’imputato, alimentato “da una rabbiosa frustrazione, da quella forma di odio verso ciò che si è amato e che ha tralignato, che può rendere un uomo… pronto ad abdicare a tutto, fuorché al proprio, distorto e mostruoso, codice d’onore”.

Illuminate dagli eventi successivi, citiamo ancora, “assumono un diverso tono, un ben più tetro significato anche le frasi pronunciate da Matteo nei suoi colloqui con Giulia”. Ben si comprende quale fosse il “programmino” che Cagnoni aveva per la moglie e il nuovo compagno, la sua intenzione di lasciarla presto “libera”. “La traccia del narrato dibattimentale – si legge nelle motivazioni – alimenta la convincente conclusione che, rispetto alla sua attuazione, l’insorgenza del proposito criminoso dell’imputato non è stata dovuta a nessuna occasionalità, ma ad un piano premeditato, che ha richiesto per la sua elaborazione un apprezzabile lasso temporale rispetto all’esecuzione dell’omicidio, con riferimento alla sintomaticità della causale e della scelta del tempo, del luogo e dei mezzi di esecuzione”.

 

Un’indicibile crudeltà: Giulia doveva soffrire

Cagnoni agì con indicibile crudeltà. Sentendosi “detronizzato da una Giulia finalmente padrona di sé” escogita la soluzione finale. Il “programmino” era finalmente pronto. L’omicidio di Giulia Ballestri, scrive il giudice Galanti “ha i caratteri propri del massacro”. La crudeltà non sta nell’aver agito uccidendo una persona, ma nel come si è agito. Ecco allora la modalità: “l’imputato aveva deciso di uccidere sua moglie, e stabilì che doveva soffrire, che doveva scontare l’osato allontanamento perdendo la propria identità, quel volto che tutti ricordavano di aver visto insieme a lui e che, avendo disonorato lui, nessun altro doveva più guardare”.

Ed ecco, allora, anche uno strumento: “un randello con cui poter martellare quel volto, solo quello, fino a cancellarlo”. Matteo Cagnoni “avrebbe potuto scegliere qualunque strumento per uccidere Giulia”. L’imputato era in possesso di una pistola e avrebbe potuto porre fine alla vita della moglie con uno sparo. Non solo. L’imputato, in quanto medico, avrebbe potuto avere accesso, con sufficiente facilità, a sostanze in grado di dare la morte. La scelta, invece, “si orientò sul tronco di legno, con il quale poter dar sfogo a quanto di più atrocemente represso aveva dentro di sé”.

L’uccisione di Giulia denota la “volontà di uccidere nella sua forma più intensa”. “E come non rintracciare la luce della crudeltà nel far poi morire la vittima soffocando, facendole respirare, per altri minuti di agonia, il suo stesso sangue”.

 

Un narciso, un uomo al centro dell’universo, che nulla perdona all’essere femminile

A Cagnoni, incensurato al momento della sentenza, non sono state concesse le attenuanti generiche. Secondo la legge, la concessione delle attenuanti di generiche non sono un diritto dell’imputato ma un atto di benevolenza. Nel caso specifico la Corte d’Assise di Ravenna, “non ha potuto apprezzare alcun dato idoneo ad attenuare il peso decisivo delle aggravanti e a giustificare la concessione delle circostanze attenuanti generiche. Al contrario taluni elementi appaiono negativamente valutabili”. Deve essere quindi “negativamente apprezzato il comportamento processuale dell’imputato, che, nel corso del proprio esame dibattimentale, risulta avere più volte mentito”, arrivando fino a negare anche l’evidenza, “ricorrendo spesso a giustificazioni neppure plausibili”. Ma per la Corte non può essere neppure facilmente archiviata “come circostanza neutra il contegno tenuto dall’imputato nel corso di tutto il periodo che ha occupato l’istruttoria dibattimentale”. Il riferimento non è solo alle manifestazioni di intolleranza e ai violenti insulti rivolti alla madre della vittima al termine della sua testimonianza. Ma alle decine di lettere “dai contenuti sovente manipolatori, diffamatori, finanche indirettamente intimidatori, a volte ai limiti del calunnioso” che la Corte ha dovuto acquisire, inviate da Cagnoni ad amici, a conoscenti, a persone chiamate a deporre quali testimoni o ai giornali locali.

Il comportamento successivo al delitto, scrive Galanti, “costituisce manifestazione di una personalità complessa, fortemente negativa, autoreferenziale, che vede il sé al centro dell’universo”. In questo quadro anche il ricordo di Giulia viene mortificato. “Pur a fronte di parole apparentemente positive, Cagnoni ha cercato di veicolare in giudizio una immagine della vittima ingiustamente negativa, distorta…” quasi come se, il dottor Galanti cita la frase pronunciata dalla madre dell’imputato durante una telefonata alla custode della villa maledetta, Giulia avesse rovinato tutto.

E poi le parole oltraggiose dell’imputato nei confronti degli amici più stretti di Giulia. In particolare dell’amica del cuore Elisabetta Amicizia. “Paradossalmente – si legge nelle motivazioni – l’astio nei confronti della Amicizia si è rivelato maggiore di quello serbato per l’amante della moglie, pur più volte insultato e vilipeso. Anche in questi atteggiamenti Cagnoni ha rivelato l’essenza del suo pensiero sull’essere maschile, che giustifica anche il molto, mentre nulla può essere perdonato all’essere femminile”.

La sentenza di primo grado non chiude la vicenda. Già annunciato da tempo il ricorso in appello dei difensori di Cagnoni che dal 23 novembre è tornato nella casa circondariale di Ravenna. Circostanza che ha provocato le proteste di Udi, Linea Rosa e Dalla parte dei minori che hanno rivolto un interpello al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

 

A cura di Roberta Emiliani

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