56° Rapporto Censis. Un’Italia da paura. La crisi chiama irrazionalità. Per 3 milioni di italiani il Covid non esiste e la Terra è piatta. 4 italiani su 10 credono alla sostituzione etnica

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Malinconici, spaventati dagli eventi globali come la guerra e la crisi energetica, sempre meno disposti a seguire le sirene degli influencer e del lusso ma anzi indignati dallo sfoggio di denaro e dalle diseguaglianze economiche ostentate nella vita e sui social. E poi in preda a onda di irrazionalità. È questo il ritratto degli italiani che emerge dal 56° Rapporto Censis, quello che fotografa un Paese “entrato nel ciclo del post-populismo”.

DILAGA L’IRRAZIONALITÀ

Gli italiani e l’irrazionale. Accanto alla maggioranza ragionevole e saggia si leva un’onda di irrazionalità. È un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà, dice il Censis. Per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni di persone) il Covid semplicemente non esiste. Per il 10,9% il vaccino è inutile e inefficace. Per il 31,4% è un farmaco sperimentale e le persone che si vaccinano fanno da cavie. Per il 12,7% la scienza produce più danni che benefici. Si osserva una irragionevole disponibilità a credere a superstizioni premoderne, pregiudizi antiscientifici, teorie infondate e speculazioni complottiste. Ci sono le tecno-fobie: il 19,9% degli italiani considera il 5G uno strumento molto sofisticato per controllare le menti delle persone. C’è il negazionismo storico-scientifico: il 5,8% è sicuro che la Terra sia piatta e il 10% è convinto che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna.

La teoria cospirazionistica del «gran rimpiazzamento» ha contagiato secondo il Censis il 39,9% degli italiani, certi del pericolo della sostituzione etnica: identità e cultura nazionali spariranno a causa dell’arrivo degli immigrati, portatori di una demografia dinamica rispetto agli italiani che non fanno più figli, e tutto ciò accade per interesse e volontà di presunte opache élite globaliste. L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale, sia le posizioni scettiche individuali, sia i movimenti di protesta che quest’anno hanno infiammato le piazze, e si ritaglia uno spazio non modesto nel discorso pubblico, conquistando i vertici dei trending topic nei social network, scalando le classifiche di vendita dei libri, occupando le ribalte televisive.

Secondo il Censis l’irrazionale che oggi si manifesta nella nostra società non è semplicemente una distorsione legata alla pandemia, ma ha radici socio-economiche profonde, seguendo una parabola che va dal rancore al sovranismo psichico, e che ora evolve diventando il gran rifiuto del discorso razionale, cioè degli strumenti con cui in passato abbiamo costruito il progresso e il nostro benessere: la scienza, la medicina, i farmaci, le innovazioni tecnologiche. Ciò dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali. Questo determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ridotti ritorni in termini di gettito fiscale, conseguentemente l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e la ricusazione del paradigma razionale.

LA CRISI ECONOMICA, LA BASSA CRESCITA, I SALARI FERMI

La fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali. Infatti, l’81% degli italiani ritiene che oggi è molto difficile per un giovane vedersi riconosciuto nella vita l’investimento di tempo, energie e risorse profuso nello studio. Il 35,5% è convinto che non conviene impegnarsi per laurearsi, conseguire master e specializzazioni, per poi ritrovarsi invariabilmente con guadagni minimi e rari attestati di riconoscimento. Per due terzi (il 66,2%) nel nostro Paese si viveva meglio in passato: è il segno di una corsa percepita verso il basso. Per il 51,2%, malgrado il robusto rimbalzo del Pil di quest’anno, non torneremo più alla crescita economica e al benessere del passato. Il Pil dell’Italia era cresciuto complessivamente del 45,2% in termini reali nel decennio degli anni ’70, del 26,9% negli anni ’80, del 17,3% negli anni ’90, poi del 3,2% nel primo decennio del nuovo millennio e dello 0,9% nel decennio pre-pandemia, prima di crollare dell’8,9% nel 2020.

Negli ultimi trent’anni di globalizzazione, tra il 1990 e oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite: -2,9% in termini reali rispetto al +276,3% della Lituania, il primo Paese in graduatoria, al +33,7% in Germania e al +31,1% in Francia. L’82,3% degli italiani pensa di meritare di più nel lavoro e il 65,2% nella propria vita in generale. Il 69,6% si dichiara molto inquieto pensando al futuro, e il dato sale al 70,8% tra i giovani.

Il rischio di erosione del patrimonio delle famiglie. Solo il 15,2% degli italiani ritiene che dopo la pandemia la propria situazione economica sarà migliore. Per la maggioranza (il 56,4%) resterà uguale e per un consistente 28,4% peggiorerà. La ricchezza complessiva delle famiglie è pari a 9.939 miliardi di euro. Il patrimonio in beni reali ammonta a 6.100 miliardi (il 61,4% del totale), depositi e strumenti finanziari valgono 4.806 miliardi (al netto delle passività finanziarie, pari a 967 miliardi, corrispondono al 38,6% della ricchezza totale). Ma nell’ultimo decennio (2010-2020) il conto patrimoniale degli italiani si è ridotto del 5,3% in termini reali, come esito della caduta del valore dei beni reali (-17,0%), non compensata dalla crescita delle attività finanziarie (+16,2%). Gli ultimi dieci anni segnano quindi una netta discontinuità rispetto al passato: si è interrotta la corsa verso l’alto delle attività reali che proseguiva spedita dagli anni ’80. La riduzione del patrimonio, esito della diminuzione del reddito lordo delle famiglie (-3,8% in termini reali nel decennio), mostra come si sia indebolita la capacità degli italiani di formare nuova ricchezza.

Il rimbalzo nella scarsità. Ci sono fattori di freno che congiurano contro la ripresa economica. Tutti i rischi di natura socio-economica che avevamo paventato durante la pandemia (il crollo dei consumi, la chiusura delle imprese, i fallimenti, i licenziamenti, la povertà diffusa) vengono oggi rimpiazzati dalla paura di non essere in grado di alimentare la ripresa, di inciampare in vecchi ostacoli mai rimossi o in altri che si parano innanzi all’improvviso, tanto più insidiosi quanto più la nostra rincorsa si dimostrerà veloce. A cominciare dal rischio di una fiammata inflazionistica. A ottobre 2021 il rialzo dei prezzi alla produzione nell’industria è stato consistente: +20,4% su base annua. Si registra un +80,5% per l’energia, +13,3% per la chimica, +10,1% per la manifattura nel complesso, +4,5% per le costruzioni.

Le incognite che pesano sul risveglio dei consumi dopo la depressione della domanda interna. Il forte recupero dei consumi delle famiglie (+14,4% tra il secondo trimestre del 2020 e il secondo del 2021) è figlio dell’allentamento delle misure di contenimento del contagio. Si prevede una crescita dei consumi del 5,2% su base annua, inferiore alla crescita del Pil e inadeguata a ricollocare il Paese sui livelli di spesa delle famiglie del 2019. In Italia il tasso medio annuo di crescita reale dei consumi si è progressivamente ridotto nel tempo, passando dal +3,9% degli anni ’70 al +2,5% degli anni ’80, al +1,7% degli anni ’90. Nel primo decennio del nuovo millennio si è attestato su un +0,2% e poi l’anno della pandemia ha trascinato in negativo la media decennale: -1,2%.

Complotto contro il lavoro: il gioco al ribasso della domanda e dell’offerta. Quasi un terzo degli occupati possiede al massimo la licenza media. Sono 6,5 milioni nella classe di età 15-64 anni, di cui 500.000 non hanno titoli di studio o al massimo hanno conseguito la licenza elementare. Anche tra i poco meno di 5 milioni di occupati di 15-34 anni quasi un milione ha conseguito al massimo la licenza media (il 19,2% del totale), 2.659.000 hanno un diploma (54,2%) e 1.304.000 sono laureati (26,6%). Considerando gli occupati con una età di 15-64 anni, la quota dei diplomati scende al 46,7% e quella dei laureati al 24,0%. Un’occupazione povera di capitale umano, una disoccupazione che coinvolge anche un numero rilevante di laureati e offerte di lavoro non orientate a inserire persone con livelli di istruzione elevati indeboliscono la motivazione a fare investimenti nel capitale umano. L’83,8% degli italiani ritiene che l’impegno e i risultati conseguiti negli studi non mettono più al riparo i giovani dal rischio di dover restare disoccupati a lungo. L’80,8% degli italiani (soprattutto i giovani: l’87,4%) non riconoscono una correlazione diretta tra l’impegno nella formazione e la garanzia di avere un lavoro stabile e adeguatamente remunerato.

IL SOTTOUTILIZZO DEL CAPITALE UMANO, LA CARENZA DI CAPITALE SOCIALE

Secondo il Censis l’Italia affronta la grande sfida della ripresa post-pandemia con una grave debolezza: la scarsità di risorse umane su cui fare leva. Il primo fattore critico è l’inverno demografico. Tra il 2015 e il 2020 si è verificata una contrazione del 16,8% delle nascite. Nel 2020 il numero di nati ogni 1.000 abitanti è sceso per la prima volta sotto la soglia dei 7 (6,8), il valore più basso di tutti i Paesi dell’Unione europea (media Ue: 9,1). La popolazione complessiva diminuisce anno dopo anno: 906.146 persone in meno tra il 2015 e il 2020. Secondo gli scenari di previsione, la popolazione attiva (15-64 anni), pari oggi al 63,8% del totale, scenderà al 60,9% nel 2030 e al 54,1% nel 2050. Secondo un’indagine del Censis, poco prima della pandemia il 33,1% dei capifamiglia con meno di 45 anni aveva l’intenzione di sposarsi o di convivere e il 29,8% aveva l’intenzione di fare un figlio. Ma soltanto il 26,5% ha continuato a progettare o ha effettivamente intrapreso un matrimonio o una convivenza stabile. In un caso su dieci il progetto originale è stato annullato. La grande maggioranza delle famiglie che stavano pensando di avere un figlio ha deciso di rinviare (55,3%) o di rinunciare definitivamente al progetto genitoriale (11,1%).

Ricchezza privata, povertà pubblica: la carenza di capitale sociale. Uno degli ambiti in cui le misure espansive si sono concretizzate in modo più evidente è l’edilizia privata. Al 30 settembre 2021 gli interventi edilizi in corso o conclusi incentivati con il super-bonus 110% sono stati più di 46.000, per un ammontare di investimenti ammessi a detrazione pari a quasi 7,5 miliardi di euro (di cui il 68,2% per lavori conclusi), con un onere per lo Stato di 8,2 miliardi. Il boom degli ultimi mesi è legato alla crescita della quota relativa ai condomini, che oggi è pari solo al 13,9% degli interventi (la percentuale era del 7,3% a febbraio), ma rappresenta poco meno della metà dell’ammontare complessivo (il 47,7%), dato che l’importo medio dei lavori nei condomini si attesta intorno ai 560.000 euro, contro i circa 100.000 euro degli interventi su singole unità immobiliari. Il rischio è che una parte dello stock di abitazioni private sia oggetto di un generoso intervento di riqualificazione energetica (nonché di valorizzazione economica) a carico della collettività, mentre molti asset pubblici (dalle scuole agli ospedali) permangano in uno stato di cattiva manutenzione.

Magazzino Italia: la logistica necessaria per la ripartenza. Nei primi sei mesi del 2020 il traffico veicolare leggero sulla rete autostradale è crollato del 43,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La contrazione è comunque elevata (-32,1%) anche considerando tutto il 2020 rispetto al 2019. La ripresa nel 2021 del traffico merci riflette l’andamento economico del Paese. Con il rilancio delle esportazioni sono cresciute le merci trasportate via mare (+5,3% nei primi sette mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2020) e via ferro (+7,8%), recuperano le merci spostate su gomma (-1,4%), mentre il traffico aereo di merci registra ancora un dato fortemente negativo (-64,1%).

NON È UN PAESE PER GIOVANI E PER DONNE

La percezione che i gangli del potere decisionale siano in mano alle fasce anziane della popolazione è molto forte tra i giovani: è quanto emerge da un’indagine del Censis. Il 74,1% dei giovani di 18-34 anni ritiene che ci siano troppi anziani a occupare posizioni di potere nell’economia, nella società e nei media, enfatizzando una opinione comunque ampiamente condivisa da tutta la popolazione (65,8%). Il 54,3% dei 18-34enni (a fronte del 32,8% della popolazione complessiva) ritiene che si spendano troppe risorse pubbliche per gli anziani, anziché per i giovani. La precarietà lavorativa sperimentata nei percorsi di vita individuali influenza il clima di fiducia verso lo Stato e le istituzioni. Il 58% della popolazione italiana tende a non fidarsi del governo, ma tra i giovani adulti la percentuale sale al 66%. I Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, costituiscono una eclatante fragilità sociale del nostro Paese. Tra tutti gli Stati europei, l’Italia presenta il dato più elevato, che negli anni continua a aumentare. Nel 2020 erano 2,7 milioni, pari al 29,3% del totale della classe di età 20-34 anni: +5,1% rispetto all’anno precedente. Nel Mezzogiorno sono il 42,5%, quasi il doppio dei coetanei che vivono nelle regioni del Centro (24,9%) o nel Nord (19,9%).

A giugno 2021, nonostante il rimbalzo dell’economia del primo semestre, le donne occupate hanno continuato a diminuire: sono 9.448.000, alla fine del 2020 erano 9.516.000, nel 2019 erano 9.869.000. Durante la pandemia 421.000 donne hanno perso o non hanno trovato lavoro. Il tasso di attività femminile (la percentuale di donne in età lavorativa disponibili a lavorare) a metà anno è al 54,6%, si è ridotto di circa 2 punti percentuali durante la pandemia e rimane lontanissimo da quello degli uomini, pari al 72,9%. Da questo punto di vista, l’Italia si colloca all’ultimo posto tra i Paesi europei, guidati dalla Svezia, dove il tasso di attività femminile è pari all’80,3%, e siamo distanti anche da Grecia e Romania, che con il 59,3% ci precedono immediatamente nella graduatoria. La pandemia ha comportato un surplus inedito di difficoltà rispetto a quelle abituali per le donne che si sono trovate a dover gestire in casa il doppio carico figli-lavoro. Il 52,9% delle donne occupate dichiara che durante l’emergenza sanitaria si è dovuto sobbarcare un carico aggiuntivo di stress, fatica e impegno nel lavoro e nella vita familiare, per il 39,1% la situazione è rimasta la stessa del periodo pre-Covid e solo per l’8,1% è migliorata. Tra gli occupati uomini, invece, nel 39,3% dei casi stress e fatica sono peggiorati, nel 44,9% sono rimasti gli stessi e nel 15,9% sono migliorati.

LA GESTIONE DELLA PANDEMIA

Il bello e il brutto di internet. La battaglia individuale contro la pandemia è stata combattuta con le armi della disintermediazione digitale. Durante l’emergenza, a più di un italiano su due le tecnologie digitali hanno consentito di provvedere alle proprie necessità (58,6%), di mantenere le relazioni sociali (55,3%) e di continuare a lavorare o studiare (55,2%). Ma il livello di istruzione rappresenta ancora un fattore di filtro. Ad esempio, gli utenti di internet in possesso di un basso titolo di studio (fino alla licenza media) sono più restii a utilizzare online il proprio conto corrente: lo fa il 30,3% a fronte del 60,1% di diplomati e laureati.

I risvolti sociali positivi: la riscoperta della solidarietà. Un terzo degli italiani ha partecipato a iniziative di solidarietà legate all’emergenza sanitaria, aderendo alle raccolte di fondi per associazioni non profit, per la Protezione civile o a favore degli ospedali. Quasi un terzo di coloro che si sono attivati ha svolto in prima persona attività gratuita in associazioni di volontariato impegnate nella lotta al Covid. Il 20,7% degli italiani ritiene che la gestione dell’emergenza da parte delle istituzioni abbia prodotto buoni risultati, per il 56,3% è stata abbastanza adeguata, per il 23,0% inadeguata.

LO SCENARIO MONDIALE FA PAURA E LA POLITICA NON SCALDA

Il report arriva a valle di una drammatica sequenza di eventi di portata mondiale: il Covid, la guerra in Ucraina, l’inflazione in crescita e la crisi energetica. Un poker micidiale che va a sommarsi alle vulnerabilità preesistenti e che determina negli italiani “una rinnovata domanda di prospettive certe di benessere” ma anche “istanze di equità non più liquidabili come aspettative irrealistiche fomentate da qualche leader politico demagogico”. Post-populismo, dunque. E d’altronde il 92,7% degli italiani è ben convinto che la corsa dei prezzi durerà a lungo, il 76,4% pensa che le entrate familiari nel prossimo anno non aumenteranno, quasi il 70% pensa anzi che il proprio tenore di vita peggiorerà. Diventano quindi “socialmente insopportabili” le forbici economiche: il gap tra i salari dei manager e quelli dei dipendenti (odioso per l’87,8%), le buonuscite milionarie dei ‘top’ (86,6%) ma anche gli eccessi, i jet privati e le auto costose. L’81,5% non tollera gli “immeritati guadagni” degli influencer, personaggi “senza competenze certe”.

Né, salvo “improvvise fiammate”, si registrano “intense manifestazioni collettive come scioperi, manifestazioni e cortei”, e a comprovarlo c’è anche il dato record dell’astensione elettorale. C’è piuttosto un ripiegamento in sè: “Una filosofia molto semplice – annota il Rapporto – ‘lasciatemi vivere in pace nei miei attuali confini soggettivi'”. Una tentazione alla “passività” che si riscontra nel 54,1% degli italiani. Ma, nel complesso, 4 su 5 “non hanno voglia di fare sacrifici per cambiare”: l’83,2% non vuole più sacrificarsi per seguire gli influencer (ancora loro), l’81,5% per vestire alla moda, il 70,5% per acquistare prodotti di prestigio, ed è attorno al 60% la percentuale di chi non smania per sentirsi più giovane o attraente. Si frena anche al lavoro: al 36,4% non interessa più sacrificarsi per far carriera o guadagnare di più.

Crescono paure nuove: ormai l’84,5% degli italiani, in particolare i giovani e i laureati, ritiene che anche eventi geograficamente lontani possano cambiare le loro vite; il 61% teme che possa scoppiare la Terza guerra mondiale, il 59% la bomba atomica, il 58% che l’Italia stessa entri in guerra. Oltre metà degli italiani, inoltre, teme di rimanere vittima di reati sebbene nell’ultimo decennio le denunce siano in calo del 25,4%, gli omicidi volontari siano diminuiti del 42,4%, così come le rapine (-48,2%) e le case svaligiate (-47,5%). Sono però aumentate, sempre dal 2012, le violenze sessuali (+12,5%) e le estorsioni (+55,2%), oltre ai reati informatici.

Nel Paese è rilevata anche una tendenza all’invecchiamento all’impoverimento: nel 2021 le famiglie in povertà assoluta erano 1,9 milioni, pari al 7,5% del totale, aumentate di 1,1 punti rispetto al 2019, per un totale di quasi 5,6 milioni di individui. Gli over 65 sono il 23,8%, +60% rispetto a trent’anni fa, e tra vent’anni si calcola che saranno il 33,7%. Il trend si riflette sulla scuola, ma anche sulla sanità. Si calcola che tra 20 anni tra i banchi potrebbero sedere 1,7 milioni di giovani in meno, con uno ‘tsunami demografico’ che investirà in primo luogo la primaria e la secondaria di primo grado: i 6-13enni, già nel 2032, potrebbero essere quasi 900mila in meno rispetto a oggi. E anche le immatricolazioni all’Università sono date in contrazione forte tra il 2032 e il 2042. Intanto i Neet – chi non studia né lavora – sono al top d’Europa: il 23,1% dei 15-29enni, che sale al Sud al 32,2%: la media Ue è del 32,2%.

Invecchia anche il personale sanitario: l’età media dei 103.092 medici del Ssn è di 51,3 anni, tra gli infermieri è di 47,3 anni. Si stima che nel 2022-2027 i pensionamenti tra i medici saranno 29.331 e 21.050 tra gli infermieri. Dal 2008 al 2020 il rapporto medici/abitanti è passato da 19,1 a 17,3 per 10mila abitanti, mentre quello relativo agli infermieri da 46,9 a 44,4 per 10mila.

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Commenti

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  1. Scritto da fabio

    Tre milioni di persone sono certe che la terra sia piatta. E io sono terrorizzato da loro.

  2. Scritto da Giovanni lo scettico

    Quando leggo cose del genere scopro di non essere democratico: per me i terrapiattisti e simili non dovrebbero avere diritto di voto.

  3. Scritto da Tax19

    “La crisi chiama irrazionalità”… è sufficiente osservare quanti italiani credono in dio e nelle storielle propinate dalla chiesa, che sono l’apoteosi dell’irrazionalità.