I femminicidi continuano a crescere, ma qualcosa è cambiato. E molto deve cambiare, anche tra gli uomini. Ne parla Carla Baroncelli

Oggi è il 25 novembre, giornata che l’ONU ha voluto dedicare alla lotta contro la violenza maschile sulle donne. Assieme a Carla Baroncelli, giornalista ed attivista femminista di lungo corso, parliamo di come è evoluto il tema negli anni, quanto le lotte delle donne hanno inciso sul fenomeno e quanto sia rimasto immutato, nonostante lo scorrere del tempo. Partiamo dal recente femminicidio di Giulia Cecchettin, la giovane studentessa di ingegneria, brutalmente assassinata dal suo ex fidanzato, per ritornare al femminicidio di un’altra donna che casualmente portava lo stesso nome e che in città fece molto scalpore, quello di Giulia Ballestri.

L’INTERVISTA

Da Giulia Ballestri a Giulia Cecchettin, cosa è cambiato sul fronte della violenza alle donne in questi ultimi 7 anni?

Dal 15 settembre 2016 quando è stata uccisa Giulia Ballestri, al femminicidio di Giulia Cecchettin l’11 novembre del 2023 sono passati 2.603 giorni, nei quali sono state uccise 697 donne. Questo è il dato effettivo. Cos’è cambiato da allora?

Non la modalità o la frequenza, perché i femminicidi sono sempre di più e sempre più efferati, con modus operandi che prolungano l’agonia delle vittime. Successe già 7 anni fa a Giulia Ballestri, probabilmente morta soffocata dal suo stesso sangue a causa dei numerosissimi colpi alla testa. Sembra sia accaduto anche a Giulia Cecchettin, che dai primi rilievi potrebbe essere morta per dissanguamento.

Qualcosa però iniziò a cambiare allora e sta continuando a cambiare oggi ed ha a che fare con le parole e dunque con i significati che veicoliamo: quando ho scritto il libro “Ombre di un processo per femminicidio” pubblicato nel 2019, la mia attenzione come giornalista è stata molto concentrata sul linguaggio.

All’epoca si parlava della parola “femminicidio”, che non rappresenta ancora una fattispecie di reato nel nostro ordinamento giuridico, ma ha un significato preciso: indica l’uccisione di una donna da parte di un uomo, per il fatto che è donna. Oggi questo termine è stato sdoganato, è diventato di uso comune. Persino La Russa parla di femminicidio! Ma all’epoca si è dovuto insistere per farlo accettare.

Una nuova parola – nuova si fa per dire, la conosciamo da tempo, ma non è mai stata sulla bocca di tutti – si è affacciata a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin: questa volta si tratta di “patriarcato”. Parlare di patriarcato elimina definitivamente dai moventi del femminicidio concetti come la gelosia, il raptus ed esplicita che dietro questi delitti c’è da sempre la cultura patriarcale, che vuole la donna sottomessa all’uomo.

Sette anni fa c’è stato bisogno di definire il crimine, usando una parola che lo identificasse in modo univoco. Oggi si sta cercando, con un’altra parola, di fare chiarezza sulle cause che lo producono. Non è ancora un concetto di uso comune, ma grazie a persone coraggiose, come anche Elena Cecchettin, sorella di Giulia, che l’ha nominato nel suo discorso pubblico, se ne comincia a parlare, sta diventando diffuso, quantomeno tra le giovani generazioni. Se cambia il linguaggio, cambia la cultura: chiamare le cose col proprio nome produce un’evoluzione.

Cosa invece è rimasto immutato?

Quello che invece è rimasto valido nella sua arretratezza è la regola del patriarcato nei confronti delle donne: “Stai zitta”. Michela Murgia ci ha fatto un libro sopra. È sempre stato il leit motiv di cui i maschi si sono serviti per tacitare le donne. Le donne però zitte non ci vogliono stare più e non accettano i “minuti di silenzio”, vogliono fare rumore. Si tratta di piccoli cambiamenti, che vanno però letti come segnali epocali, che insinuano una nuova breccia nel muro del patriarcato.

Quando venne uccisa Giulia Ballestri, anche in città, ci fu un’onda di sorpresa. Quando è sparita Giulia Cecchettin, ben prima che ne ritrovassero il corpo, noi tutte sapevamo la fine che aveva fatto. Non era stata “zitta”, era uscita dal ruolo sottomesso che le aveva assegnato il suo ex fidanzato, in accordo con le regole patriarcali. Aveva voluto decidere per sé, studiare e brillare più di lui. Ed è stata punita per questo.

Il minuto di silenzio, che significa raccoglimento nel dolore, contrizione, teste abbassate, non fa più parte del linguaggio delle donne e delle giovani generazioni, che dopo la morte di Giulia Cecchettin, hanno chiesto e fatto “un minuto di rumore”, in accordo con la poesia di Cristina Torres Caceres che recita: “Se domani non torno, distruggi tutto”, altro che silenzio.

La regola patriarcale di “Stai zitta” continua a cercare di imporsi, fino alle conseguenze più violente dei femminicidi, purtroppo. Ma trova sempre più disubbidienza e sempre meno conferma nello spazio pubblico. Anche questo è segno di un cambiamento culturale.

Un’altra cosa che non è ancora cambiata e si ripete tal quale nel tempo è la sottovalutazione, da parte di tutti, del rischio che corrono le donne. Il non prendere fin da subito sul serio le denunce, che a volte vengono dalle donne e altre da testimoni di episodi di violenza sulle donne. Il caso di Giulia Cecchettin a questo proposito è emblematico: una persona ha sentito una donna, che poi si è rivelato essere Giulia, dire “mi fai male”, ha visto una macchina nera allontanarsi dopo aver caricato qualcosa, il corpo di Giulia, e ha chiamato subito il 112. Ma le forze dell’ordine non hanno tenuto in debito conto questa segnalazione e nessuno p andato tempestivamente a controllare. Cosa ancora più grave, in questo caso specifico, è che il padre di Giulia, il giorno dopo la sua scomparsa, è andato a denunciarla, specificando che era preoccupato per la sua incolumità, ma nel verbale si parla di allontanamento volontario, con nessun grado di pericolosità. Forse a quel punto non c’era niente da fare per salvare la vita di Giulia, ma questa sottovalutazione del pericolo che corrono le donne esposte alla violenza maschile è estremamente grave. È uno scandalo.

Hai detto che un cambiamento è in atto, che le lotte delle donne hanno effetto, anche se la violenza continua. Oltre che nel linguaggio, in cosa lo vedi?

Faccio un esempio concreto: lunedì scorso un gruppo di studenti e studentesse universitarie hanno convocato un incontro in piazza San Francesco, per stare insieme, nel nome di Giulia Cecchettin e delle vittime di femminicidio. I giovani si sono riappropriati dello spazio pubblico per parlare di quello che sentivano. Hanno incrinato la regola dello “Stai zitta”. Le ragazze hanno parlato della violenza che come donne subiscono, delle loro paure per le relazioni violente. Quando alla fine la piazza è “esplosa” in “un minuto di rumore”, è stato davvero liberatorio. Anche questo è un segno dei tempi che cambiano e, allo stesso tempo, un’azione che produce altro cambiamento.

E poi, sappiamo che le denunce ai centri antiviolenza sono aumentate tantissimo negli ultimi tempi, perché nelle donne c’è più consapevolezza che la paura provata non è una fisima, ma nasce da un pericolo vero.

E gli uomini, possono contribuire al cambiamento? Spesso, quando vengono chiamati in causa, scattano sulla difensiva e accusano le attiviste di essere contro di loro, di considerare tutti gli uomini dei violenti.

Il discorso che ho portato nella piazza ravennate per Giulia Cecchettin, riguarda proprio questo aspetto. Quando si parla con gli uomini, anche quelli più vicini alla lotta delle donne, spesso emerge l’esigenza di mettersi sulla difensiva, di chiamarsi fuori dal “cerchio dei violenti”: “io non picchierei/ucciderei/stuprerei mai una donna, anzi, io sono femminista, le donne le rispetto”. A questo proposito c’è da fare una differenza: da un lato c’è la colpa della violenza, che riguarda gli uomini che l’agiscono, dall’altro la responsabilità, che riguarda tutti. Ogni uomo si deve assumere la responsabilità del suo essere uomo all’interno di una società maschilista, che andrà rovesciata anche per mezzo delle azioni degli uomini che prendono le distanze dalla violenza sulle donne. Come ci si prende la responsabilità, quando non si ha la colpa? Si può partire dall’attenzione al linguaggio che si usa o che gli uomini usano sentono nei consessi maschili, dalla palestra, al bar, al luogo di lavoro: vigilare che non sia un linguaggio sprezzante, offensivo, nei confronti delle donne. Si può partire dal mettere in discussione gli stereotipi di genere. Ogni uomo si può assumere la responsabilità personale, non solo politica, di fermare gli altri maschi che colpiscono la dignità delle donne. Possono sembrare piccole cose, ma che fanno la differenza.

Se nella lotta al patriarcato, e quindi alle cause della violenza sulle donne, è evidente il vantaggio delle donne, che mirano ad emanciparsi dal sistema che le sottomette, lo è meno quello degli uomini, che anzi sembra che abbiano solo da perderci. Perché dovrebbero impegnarsi ad abbatterlo?

Per loro è più difficile perché devono rinunciare al privilegio del potere. Ma se solo gli uomini si fermassero a riflettere su quanto costa loro esercitare questo potere, forse troverebbero dei buoni motivi per lottare. Per essere ammessi nella categoria dei “veri uomini”, quelli che poi hanno anche il diritto, se vogliono, di schiacciare le donne, non devono mollare mai, devono sempre essere pronti ad usare la violenza, non possono essere fragili, non sono liberi di essere se stessi, devono corrispondere ad uno stereotipo di forza e durezza. Ma di che potere stiamo parlando? Non certo del potere di risolvere i problemi, ma quello di controllare le cose e le persone.

Parliamo della proposta che il Governo ha avanzato nei giorni scorsi di introdurre a scuola l’educazione all’affettività. I movimenti femministi chiedono da anni provvedimenti di questo tipo, è quindi una buona notizia?

Intanto si tratta di una direttiva, che si applicherà su base volontaria, in orario extracurricolare, quindi senza obbligo di aderire, né per le scuole, né per gli studenti. Saranno 30 ore di incontri tra studenti, insegnanti ed esperti, rivolti solo agli studenti delle superiori ed in forma sperimentale. A quel punto è tardi per educare alle relazioni, gli adolescenti sono già strutturati in questo senso. Inoltre, continuiamo a non parlare di educazione sessuale, nemmeno agli studenti delle scuole superiori.

Questo fa parte del dettame che vuole l’educazione dei minori ad appannaggio esclusivo della famiglia, che altrimenti si sente privata del suo potere. A parlare inoltre saranno gli adulti, gli insegnanti, gli esperti, e gli studenti ancora una volta saranno tenuti a stare zitti. E poi, chi forma i professori e quali psicologi potranno dire la loro?

Per non parlare di questo prof. Alessandro Amadori, che è stato consulente del Ministero su questa iniziativa. Uno che rintraccia il motore della violenza nella cattiveria umana e non nel patriarcato, cattiveria che come tale esisterebbe anche nelle donne, che a loro volta possono essere violente. Però non ci troviamo di fronte ad un omicidio di uomini da parte delle donne ogni tre giorni, mentre avviene il contrario. I due fenomeni non sono nemmeno vagamente comparabili. Per non parlare di quando postula l’esistenza di un presunto (ma secondo lui provatissimo) movimento femminista radicale, chiamato Ginarchia, stimato in circa 30mila donne in Italia, che vuole sottomettere e uccidere gli uomini. Siamo alla follia.

L’omicidio di Giulia Cecchettin non è stato purtroppo l’ultimo fin qui. Qualche giorno dopo è stata strangolata dal marito Rita Talamello, che era una donna non più giovane e a quanto pare gravemente malata. Il marito è stato descritto come un uomo disperato, esasperato dalla malattia psichiatrica della moglie, che l’ha uccisa perché non riusciva più ad affrontare la situazione. L’uccisione di donne anziane e/o malate, raramente rientra nel novero dei femminicidi, mentre io credo che rappresentino una fattispecie precisa di femminicidio: sono donne che sono uscite dal loro ruolo di cura, che non servono più a nulla, anzi, che creano fastidio e in quanto tali vengono eliminate. Cosa ne pensi?

Spesso vengono definiti addirittura “omicidi compassionevoli”, come ad indicare che l’assassino ha fatto quasi un favore alla vittima. Io non ci casco, perché da quando mondo è mondo le donne si sono prese cura degli uomini e della famiglia, fino a che ce n’è stato bisogno, senza ammazzarli. Qualche caso ci sarà stato, ma fateci caso: tendenzialmente sono gli uomini che uccidono le donne malate, non il contrario. Una donna anziana e malata non fa più da mangiare, non pulisce la casa, non cura la famiglia; anzi: si trasforma in un peso. Rovescia i ruoli ed è intollerabile. Quindi sono da considerarsi a tutti gli effetti dei femminicidi.

La Casa delle Donne, di cui sei socia fondatrice, ha recentemente lanciato l’iniziativa dei flash mob di denuncia dei femminicidi. A cosa serve, perché farli?

Perchè ritorniamo all’assunto iniziale: non stiamo più zitte. Troviamo qualunque modo per farci ascoltare, anche con un semplice cartello “È strage”, ogni volta che ci sarà un femminicidio. È come gridare che il problema esiste e va risolto. Questi gesti hanno il senso di alzare la voce e portare il tema in piazza, davanti a tutti, perché non possa essere più ignorato.