Eraldo Baldini ritorna a Lancimago e al gotico rurale con “La palude dei fuochi erranti” edito da Rizzoli

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A tre anni dal suo ultimo romanzo Stirpe selvaggia, pubblicato da Einaudi, dal 1° ottobre torna nelle librerie Eraldo Baldini con La palude dei fuochi erranti, questa volta edito da Rizzoli. Il passaggio alla nuova casa editrice coincide con un ritorno alle origini, a Lancimago, il luogo immaginario ma in fondo così vicino, che ci sembra di conoscere e dove ogni tanto anche noi torniamo, in cui Baldini ha ambientato il suo primo romanzo di successo Mal’Aria. Lui torna a raccontare delle nostre valli, delle paludi e delle zone umide fra Ravenna e Ferrara, quel mondo a parte, sospeso fra la terra e l’acqua, che lo ha sempre affascinato fin da quando era ragazzo e che poi è diventato un suo topos letterario. E il ritorno a Lancimago coincide con il ritorno anche al gotico rurale, il genere letterario che lo ha fatto conoscere al grande pubblico italiano.

Baldini Eraldo

 

L’INTERVISTA

Eraldo Baldini, cominciamo dall’editore Rizzoli. È un nuovo editore o mi sbaglio?

“No. È un nuovo editore. È il primo romanzo che pubblico con loro. Mi ripubblicano, sempre in ottobre, anche L’uomo nero e la bicicletta blu che per Einaudi era esaurito da due anni.”

Avevi chiesto a Einaudi la ristampa, ma non te l’hanno concessa se non ho letto male. È anche per questo che sei passato a Rizzoli?

“Non era nei programmi di Einaudi ripubblicare il mio libro. In parte è anche per questo, ma, più in generale, dopo 17 anni di rapporto professionale con un editore magari si danno per scontate cose che non lo sono. Così ho preferito cambiare, lo considero un nuovo inizio, per trovare anche stimoli diversi.”

Allora veniamo all’oggi, a La palude dei fuochi erranti. Che cosa puoi raccontare?

“Il nuovo romanzo è ambientato a Lancimago, il nome inventato di una località, che ho usato già in Mal’aria e in Quell’estate di sangue e di luna. È una specie di mio topos letterario, una località persa nelle grandi paludi che si trovavano un tempo fra il Ravennate e il Ferrarese e di cui rimangono oggi tracce nelle Valli di Comacchio e in quelle a nord di Ravenna. È un ambiente che mi ha sempre affascinato e mi ha dato molte suggestioni, perché un posto del genere implica isolamento geografico e culturale di una comunità, l’esistenza di una specie di avamposto marginale in cui tutte le condizioni diventano più difficili, più dure, più estreme.”

 Un mondo a parte, quindi, questa piccola comunità di…

“Si tratta di agricoltori in questo caso, in un posto dove c’è un’abbazia, il palazzotto di un signorotto locale. Siamo nel 1630 e questa piccola comunità è spaventata: sta aspettando l’arrivo della peste, già giunta a Imola e in alcune zone della Bassa Romagna. È questa la grande minaccia che tutti attendono con crescente terrore. E per prepararsi, quelli dell’abbazia cominciano a scavare delle fosse comuni perché sanno che sarà necessario seppellire molti morti. Ma scavando trovano qualcosa d’inquietante e da quel momento è tutto un precipitare di eventi. Succedono cose molto strane interpretate come fenomeni diabolici, soprannaturali. Il momento coincide con l’arrivo a Lancimago di un certo Rodolfo Diotallevi, Delegato del Commissario Apostolico, inviato con il compito di creare un cordone sanitario che eviti il dilagare della peste. Questi strani accadimenti non fanno altro che spaventare ulteriormente la comunità ma allo stesso tempo spaventano anche il Diotallevi, che si trova a fare i conti con questo sconvolgimento…”

E con un grumo di superstizioni…

“A cui lui stesso non è estraneo, perché siamo nel 1630, la chiesa è quella della Controriforma, e in quel tempo il timore dell’intervento diabolico, della stregoneria, del soprannaturale contagiava o pervadeva anche gli uomini di chiesa, non solo il popolo. In quel momento di grande incertezza e di crescente terrore, il Delegato Apostolico deve decidere cosa fare, relazionandosi con i monaci dell’abbazia, con il signorotto locale e con la popolazione in un groviglio di fatti, situazioni, emozioni in cui non si capisce bene dove sta il male e dove sta il bene.”

I fatti del 1630, il contesto in cui hai scelto di ambientare la tua storia, sono storicamente accertati se non sbaglio.

“Sì, quella del 1630 è la pestilenza di manzoniana memoria, raccontata ne I Promessi Sposi.”

Tu ti riallacci anche ai tuoi studi storici……

“Sì, anno scorso ho scritto Il fango, la fame, la peste. Clima, carestie ed epidemie in Romagna nel Medioevo e in Età moderna. Leggendo centinaia di documenti e di relazioni, mi sono calato in quel contesto e ho trovato idee e suggestioni che poi mi hanno spinto a raccontare questa storia.”

Anno scorso, quando parlammo del saggio mi confessasti che non avresti più scritto romanzi. Mai fidarsi degli scrittori… per fortuna!

“Diciamo che l’idea era quella, o meglio, il progetto era di non scrivere più romanzi a cadenza ravvicinata, considerandolo quasi come un obbligo. Poi scrivendo quel saggio, penso mi sia venuta un’idea buona e mi sono detto, perché no? Comunque, adesso penso che scriverò solo quando avrò buone idee.”

Con questo romanzo sei tornato al primo amore, al gotico rurale, lo stile che ti ha contraddistinto così marcatamente.

“Sì, si può dire che è un gotico rurale con venature di giallo.”

Possiamo parlare anche di romanzo storico.

“Certo, perché tutta una serie di dettagli, di figure e di avvenimenti sono rigorosamente storici. Poi su quella base ho costruito personaggi e vicende di pura fantasia, invenzioni legate a quel mondo isolato, un mondo fuori dal mondo che viene messo sotto sopra dagli avvenimenti. Nel romanzo c’è anche uno scienziato che mentre succedono tutti questi fatti misteriosi e inquietanti rincorre un suo sogno e conduce una sua ricerca legata ai fatti stessi. E nel libro quindi c’è anche il tema del conflitto fra religione e scienza, fra gli ultimi cascami del medioevo e i prodromi del secolo dei lumi.”

Ci sono agganci con la realtà attuale, con le nostre paure, le nostre contraddizioni?

“La paura è un leit motiv che accompagna tutte le società: spesso è legata a fenomeni che arrivano da fuori, che non capiamo, perché sappiamo che – comunque vada – queste cose metteranno in discussione e in crisi abitudini, certezze, equilibri consolidati. Nel romanzo tutto queste avviene in una comunità alle prese con enormi difficoltà legate al vivere quotidiano. Senza voler fare paragoni irriverenti, e parlo de Il nome della rosa di Umberto Eco, là la vicenda ruota attorno a una grande disputa di carattere dottrinale, filosofico, teologico. Nella mia storia invece le dispute nascono dalla fatica quotidiana di vivere e di sopravvivere.”

Ne Il nome della rosa si litiga da morire sui libri di Aristotele e sul destino della chiesa dopo San Francesco. Nel tuo romanzo sembra che si litighi soprattutto per non morire…

“Sì, potrebbe essere una buona sintesi.”

Arriviamo al finale. Senza svelarlo, possiamo almeno dire se è aperto, oppure tragico o, al contrario, sorprendentemente rassicurante?

“Difficile dire senza svelare (ride, ndr). Posso solo dire che il finale ha caratteri inaspettati.”

 

Eraldo Baldini con Pupi Avati (dal profilo Facebook di Eraldo Baldini)

Eraldo Baldini

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