Matteo Cavezzali e “Nero d’Inferno”: storie di migranti e di anarchia e del primo terrorista moderno

Mercoledì 13 novembre, alla sala Muratori della Biblioteca Classense Il tempo ritrovato ha ceduto il passo a “Riscrivere la storia”, rassegna che ha l’obiettivo di fare dialogare storia e letteratura sul “terreno comune del romanzo storico” per dare spazio a “Nero d’inferno”, secondo libro di Matteo Cavezzali. In una sala gremita, dopo l’introduzione del direttore della Biblioteca di storia contemporanea  Oriani, Alessandro Luparini, l’autore ha parlato del suo incontro con il personaggio inquietante e sfuggente di Mario Buda, ciabattino di Savignano sul Rubicone ma, soprattutto, sanguinoso terrorista.

“Il libro di Matteo – è la premessa di  Luparini – racconta una storia individuale dentro una storia collettiva”. La storia collettiva è quella dei migliaia di italiani che all’inizio del secolo scorso emigrarono negli Stati Uniti d’America in cerca di fortuna. “Una storia di miseria, sfruttamento, sopraffazione, di fortissimi  pregiudizi razziali che spesso sfociavano in violenze contro gli immigrati italiani, considerati da alcuni gruppi suprematisti, come il famigerato Ku Klux Klan, appena un gradino sopra ai negri. Mezzi negri, era uno dei tanti epiteti con i quali venivano indicati gli italiani. Se questo vi fa pensare a qualcosa, toglietevi ogni illusione – dice Luparini in tono un po’ ironico e un po’ amaro  – . La storia, al di là delle frasi retoriche non insegna niente, bisogna ogni volta ricominciare da capo”.

Accanto a questo, c’è la vicenda collettiva del movimento anarchico italiano di inizio Novecento negli Stati Uniti d’America. “Un movimento ampio, radicato, che aveva un grande organizzatore vercellese che si chiamava Luigi Galleani. Una storia, quella degli anarchici negli Stati Uniti – racconta Luparini al pubblico che lo segue attento – di lotte, di speranze, di partecipazione, di mobilitazione ma anche di violenza, di attentati contro cose e persone. Una violenza portata in terra americana da immigrati”.

“La vicenda individuale che s’innesca in questa grande storia collettiva complessa e drammatica – prosegue il direttore della Biblioteca Oriani – è quella di un romagnolo classe 1883, nato a Savignano di Romagna, come si chiamava all’epoca, di nome Mario Buda che emigra negli Stati Uniti d’America come tantissimi romagnoli. La Romagna in quegli anni era una delle zone più povere e depresse. Non c’è documentazione che testimonia il fatto che Mario Buda aderisse al movimento anarchico quando viveva a Savignano. Fatto sta che aderisce al movimento di Galleani in America e ne diventa uno dei membri più attivi. Dopodiché passò alla storia e all’oblio come l’inventore del terrorismo contemporaneo”.

Il nome di Mario Buda o Mike Boda, come lo chiamavano gli americani, è legato a quello di Sacco e Vanzetti, due anarchici italiani che vennero arrestati nell’aprile del 1920 con l’accusa di aver rapinato e ucciso un portavalori e una guardia giurata italiana. “Il processo a Sacco e Vanzetti  – afferma Luparini – fu un processo politico a tutti gli effetti. Non c’era infatti alcuna prova che fossero responsabili di quel duplice omicidio. Ma nel 1920 il governo americano aveva deciso di dare un giro di vite all’immigrazione, in particolare a quella italiana e di colpire il movimento anarchico. La vicenda è nota: Sacco e Vanzetti saranno bruciati sulla sedia elettrica sette anni dopo, nel 1927 e di fatto i veri colpevoli di quel duplice omicidio non furono mai trovati. È però probabile che Mario Buda abbia avuto un qualche ruolo nella vicenda. Di certo decise che l’odissea dei due anarchici italiani andasse vendicata, e decise di farlo lui”.

Ecco allora come Mario Buda divenne dolorosamente famoso in tutto il mondo e come dopo questo gesto eclatante e una vita piena di ombre, riuscì ad inabissarsi nell’oblio.

“Era il 16 settembre 1920, in piena Wall Street, nel cuore del capitalismo americano, Buda mise un carretto contenente dinamite provocando una strage terrificante. Mario Buda fuggirà di lì a poco in Italia dove continuerà a militare nel movimento anarchico. In Italia nel frattempo si stava affermando il Fascismo. Buda passerà le sue traversie giudiziarie, finirà anche al confino ma, così dicono i documenti, ad un certo punto diventerà informatore dell’Ovra, la polizia segreta fascista e morirà in tarda età nella sua Savignano sul Rubicone nel 1963”.

“Voi capite – continua Luparini – che sono già sul piatto dei temi estremamente complessi. Matteo è molto bravo perché resta sempre su un piano laico, non esprime posizioni e lascia al lettore una volta giunto alla fine del romanzo il compito di farsi delle domande e darsi delle risposte. Io però che come storico ho l’obbligo di stare ai fatti, vi voglio lasciare qualche suggestione, qualche pensiero che, auspicabilmente, possa esservi di aiuto in questo magma ribollente”.

La violenza politica, spiega lo storico, non la inventano gli anarchici, che non inventano neppure il tirannicidio. L’uccisione, avvenuta il  29 luglio del 1900 per mano dell’anarchico Gaetano Bresci venuto apposita dall’America del re d’Italia Umberto I a Monza è un gesto che ha radici lontane.

“Il tirannicidio viene teorizzato e giustificato da grandi teologi, in primis Tommaso D’Aquino, dal più grande esponente del nostro Risorgimento, Giuseppe Mazzini che, è noto, avrebbe voluto fare assassinare Cavour”.

Luparini non ha dubbi: Mario Buda è stato un criminale. “Un atto come quello del 16 settembre 1920 – asserisce convinto –  non è giustificabile per nessun motivo, in nome di nessun ideale e neppure di nessun sfruttamento come quello di cui Buda era stato testimone nei confronti della comunità italiana. Però ci sono stati fatti del tutto simili che sono trasmigrati nella storia come atti non criminali, ma rivoluzionari, come gesta patriottiche. Molto  spesso tutto dipende dal punto di osservazione e di quando si guardano. A Ravenna non c’è, ma in quasi tutte le città italiane esiste una via Felice Orsini. Ad un certo punto nel libro di Matteo Mario Buda nella sua bottega di calzolaio si rivolge ad un suo immaginario apprendista e gli racconta come si costruiscono le bombe all’Orsini. Felice Orsini era un rivoluzionario mazziniano che insieme ad altri congiurati italiani per vendicare la Repubblica Romana, il 14 gennaio del 1858 scaglia delle bombe contro il corteo dell’imperatore Napoleone III che si stava recando a teatro in carrozza. Napoleone III rimane illeso, ma le bombe provocano 12 morti e 156 feriti. Orsini viene considerato un patriota, ma tecnicamente  quello che ha compiuto è un atto terroristico, né più, né meno”.

Alessandro Luparini chiude il suo intervento con una riflessione e una citazione. La riflessione è che “qualsiasi messianesimo, qualunque fede o ideologia laica che pretende di rovesciare il mondo dalle fondamenta, di redimere l’umanità, in nome di Dio, in nome dell’uomo o di entrambe, porta inevitabilmente dentro di sé il rischio della degenerazione violenta. Perché se la giusta causa con la C maiuscola è quella della redenzione dell’umanità assume inevitabilmente un valore sacrale e banalizzando il nostro Machiavelli, il fine finisce sempre per giustificare il mezzo, qualunque esso sia”.

La citazione è quella del “più grande degli anarchici italiani”, Enrico Malatesta che così scriverà sul quotidiano Umanità Nova, l’8 settembre del 1921 a proposito di un terribile attentato anarchico che si era verificato qualche mese prima a Milano, al teatro Diana che uccise  21 persone, ferendone 80: “Qualunque sia la barbarie degli altri, spetta a noi anarchici, a noi tutti uomini di progresso, il mantenere la lotta nei limiti dell’umanità vale a dire non fare mai in materia di violenza, più di quello che è strettamente necessario per assicurare la vittoria della causa nostra che è la causa del bene di tutti”.

La parola passa a Matteo Cavezzali che è reduce da un incontro fatto in mattinata con le scuole durante il quale ha parlato del suo “Nero d’inferno”. Il giornalista-scrittore racconta di essere inciampato nella storia di Mario Buda per caso. “Due eventi distinti mi hanno avvicinato a questa storia. Il primo è un articolo apparso sul Guardian dove si parlava dell’Isis e del terrorismo ai giorni nostri. In questo articolo, il giornalista, come se fosse una cosa arcinota, scriveva che gli ordigni esplosivi di adesso non sono altro che l’ennesima versione  della Boda’s bomb. Sono andato a documentarmi  e ho scoperto che veniva dal nome di Mike Boda, che è il nome americanizzato di Mario Buda che aveva messo la bomba di Wall Street segnando in un certo senso la nascita del terrorismo moderno. Buda era nato esattamente cento anni prima di me e quando mise quella bomba aveva esattamente la mia età ed era nato a 38 chilometri da casa mia a Savignano e mi sono chiesto come mai io non avessi mai sentito parlare di questa storia. Dopo due giorni  – continua a raccontare – leggo un articolo dal contenuto completamente diverso, di genetica, su Internazionale. Uno  studio aveva scoperto che c’è un tratto di Dna presenti in tutti gli esseri umani solo in due varianti. La più comune a soffione, la seconda tipologia invece meno diffusa  è chiamata orchidea quest’ultima variante è presente in moltissimi pluriomicidi e terroristi, ma questo tratto comune anche con qualcun altro e questo qualcun altro sono gli scrittori”.  Fra il pubblico in molti sorridono divertiti.

“Allora ho cominciato ad indagare seguendo le piste più diverse per capire come mai un ragazzo come me partito per la terra promessa con grandi sogni e speranze, con il desiderio di mettere su una bottega da calzolaio, di farsi una famiglia, in realtà non era riuscito a fare niente di tutto questo: perché il luogo dove era arrivato era completamente diverso da come se l’era immaginato. Il 1907 è l’anno boom dell’arrivo degli italiani. E questo aveva causato un livello di grande insofferenza nei loro confronti”.

Cavezzali legge un passo di un articolo del New York Times che definisce gli  italiani come criminali patentati, poco inclini all’uso del sapone. Non è che uno dei tanti brandelli delle cronache dell’epoca che costellano “Nero d’inferno” e che descrivono gli italiani come brutti, sporchi e cattivi. In quegli anni, racconta l’autore, non a caso ci sono episodi molto violenti nei loro confronti perché spesso vengono ritenuti colpevoli ingiustamente di azioni efferate.

“In un caso famoso sette italiani vengono presi per strada e impiccati. In più ad aggravare la situazione c’erano le condizioni lavorative: la vita di un operaio italiano in un’industria americana equivaleva ad ingranaggio, se moriva un operaio veniva sostituito senza problema. Gli operai italiani cominciano allora ad aggregarsi in gruppi spontanei di ispirazione marxisti e anarchici. Iniziano a fare scioperi, sempre più frequenti, sempre più violenti. L’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale e la lettera di chiamata alle armi inviata nelle case di tutti, italiani compresi, fa scoccare la scintilla: tutti i movimenti comunisti e anarchici nati spontaneamente si radunano e fanno una grande marcia insieme.”

Che ruolo aveva avuto in tutto questo Mario Buda? Per scoprirlo Cavezzali contatta addirittura la Fbi. Dal malloppo di documenti che riesce ad ottenere, emerge che le indagini furono disastrose. Da un lato perché gli investigatori americani si trovarono di fronte ad una situazione inedita: quello degli attentati, appunto; dall’altro per mancanza di fiducia nei confronti degli italiani che li portarono a non chiedere aiuto per cercare di capire cosa stava accadendo.

Questo porta anche a conseguenza grottesche che Cavezzali racconta nel libro. Mentre la polizia dello mondo lo sta cercando, Mario Buda torna invisibile nella sua Savignano dove morirà negli anni Sessanta facendo il calzolaio di paese.

“E io allora – afferma lo scrittore – sono andato a Savignano. Ho fermato tutte le persone di una certa età: quasi tutti se lo ricordavano: sì, sì, il  vecchio calzolaio, era uno molto tranquillo… Diversi di questi anziani si ricordavano un dettaglio che mi ha colpito:  Buda era un calzolaio bravissimo, faceva tutti i modelli di scarpe che gli venivano richiesti ma aveva un vezzo quasi d’artista: la forma la sceglievi tu, ma il colore lo sceglieva lui. Il colore era sempre nero d’inferno. Questo libro ha suscitato delle polemiche che non mi aspettavo. La cosa che ha irritato una parte dei cosiddetti leoni da tastiera è che il racconto che faccio io non coincide esattamente con il luogo comune dell’immigrato di belle speranze, con la valigia di cartone che parte e si sacrifica per la famiglia. Certo che c’erano questi migranti, ma ce n’erano anche altri: è inutile girarci attorno e poi c’erano che partivano con queste intenzioni ma arrivavano a diventare altro”.

Cavezzali racconta la storia di Lupo, The Wolf, fuggito dall’Italia per non essere arrestato che finirà poi per essere arrestato dalla polizia americana dopo un’onorata carriera nel traffico di alcolici nel periodo del proibizionismo. C’è spazio anche per le considerazioni sociologiche: le bombe, gli attentati degli anarchici italiani avvengono in un momento in cui nasce un nuovo modello culturale, quello del capitalismo.

L’incontro sta per terminare. Una domanda-intervento di un’entusiasta lettrice (“io il libro non l’ho letto, l’ho vissuto”) , poi Matteo Cavezzali si sottopone sorridente al rito del firma copie.