Stefania Auci ne I Leoni di Sicilia racconta l’irresistibile ascesa dei Florio nella Palermo ottocentesca

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Per il terzo appuntamento di “Riscrivere la storia”, rassegna letteraria incentrata sul rapporto fra storia e letteratura, sabato 30 novembre, al Teatro Rasi di Ravenna, è andata in scena la saga della famiglia Florio. Sul palcoscenico trasformato in salottino, Stefania Auci, intervistata da Ilaria Cerioli e Matteo Cavezzali, ha parlato del suo libro, “I leoni di Sicilia”, davanti ad una platea gremita, dove spiccavano gli studenti delle scuole medie superiori.

Da mesi stabilmente in cima alle classifiche dei libri più venduti, il romanzo, attraverso una scrittura semplice ed evocativa, racconta l’ascesa commerciale e sociale della famiglia Florio che si intreccia ad uno dei periodi forse più inquieti della storia del nostro paese: dai moti del 1818 fino allo sbarco di Garibaldi in Sicilia. A prendere la parola per la prima domanda è Matteo Cavezzali che parte dal grande successo del romanzo, un vero e proprio “caso editoriale che ha pochi precedenti”, paragonabile alla quadrilogia dell’“Amica geniale” di Elena Ferrante. In effetti le analogie da un certo punto di vista ci sono.

Come la storia di Elena e Lila, anche dai “Leoni” verrà tratta una fiction per la Rai e, come è avvenuto per la storia delle due amiche, anche questo romanzo avrà un seguito letterario: Stefania Auci ci sta già lavorando e nel corso dell’incontro darà qualche minuscola anticipazione. Ed ecco la domanda: quanto il successo di questo romanzo ha  cambiato la vita di Stefania Auci?

“L’ha cambiata in tante maniere – risponde la scrittrice -. Intanto perché restringe molto i tempi del privato, quindi bisogna lavorare molto sulla qualità dei tempi che si trascorrono con la famiglia o anche solo con se stessi. Poi perché ti trovi a diventare forzatamente un personaggio pubblico, e devi stare attenta a quello che dici. Una delle scelte obbligate sia per questioni di tempo che per salvaguardare il mio privato, è stata quella di allontanarmi molto dai social, con delle ricadute senz’altro positive – dice sorridendo – sulla mia gastrite. Poi perché cerchi di amministrare il tuo tempo nel modo più saggio possibile e devi fare delle rinunce. Il successo è sicuramente una cosa bella, ma io rimango nella convinzione che il successo eclatante è passeggero, adesso va benissimo ma poi l’onda scende. Adesso per me è importante riuscire a fare bene questo lavoro, con serietà, concentrazione. La scrittura pretende tantissima dedizione. La scrittura, in certi momenti, è la cosa che salva e al di là di tutto il clamore mediatico, alla fine ci si ritrova da soli davanti al computer a lavorare, a immaginare, a incastrare la Storia con le storie piccole. È un lavoro che procede per errori, per controllo e anche per frustrazioni, perché non sai mai se va veramente bene. Da una parte la scrittura è una scommessa, dall’altra un gesto di liberazione”.

Da studiosa di storia, Ilaria Cerioli chiede quali siano le fonti utilizzate da Stefania Auci per scrivere il suo romanzo. “Quali sono stati i tuoi percorsi, gli  strumenti che hai usato, la documentazione che hai potuto consultare? E visto che a Palermo ci sono ancora delle testimonianze molto forti e c’è probabilmente anche un affetto da parte dei palermitani nei confronti della famiglia Florio, quali sono state le difficoltà che hai incontrato?”.

“Più che di difficoltà, – specifica l’autrice –  parlerei di resistenza che ho incontrato dopo la pubblicazione del libro. Non è solo un questione di affetto nei confronti della famiglia Florio, come dici tu. C’è l’idea della Palermo felix perduta nel tempo che non esiste più, in cui c’era bellezza, grandiosità, potere… Una narrazione falsata, perché nel 90 per cento dei casi viene trasmesso il racconto di un’epoca appunto felice, priva di riferimenti negativi che invece ci sono e che finiscono per essere conosciuti da chi decide di fare un percorso di approfondimento, di sollevare il lenzuolo e guardare il corpo che c’è sotto. Questo ha fatto storcere il naso a un po’ di gente, perché c’è stata una sorta di accusa di lesa maestà anche se ho cercato di essere il più oggettiva possibile, senza scadere nell’agiografia e nella critica gratuita anche perché, la critica gratuita, alla fine, serve ben poco. Il mio obiettivo ambizioso è quello di cercare di riportare le luci e le ombre non solo di una famiglia ma anche di un’epoca. La parte della ricerca storica – prosegue Stefania  Auci – per me è la più esaltante: è quella che mi porta a scovare il libro particolare, a incastrare le notizie nel tessuto narrativo. Sono partita dai libri sulla famiglia, volumi di storia, poi il lavoro sugli archivi online, ricerche in biblioteca soprattutto per quanto riguardava i giornali dell’epoca. Il privato della famiglia così come viene raccontato invece è frutto della mia testa. Perché – continua – ricostruire le pieghe nascoste della storia di questa famiglia attraverso i documenti, gli atti, le scelte economiche è stata proprio la sfida che mi ha portato a capire, a intuire come loro potessero  porsi nell’ambito del privato. È chiaro che una persona come Vincenzo, di grandissima energia culturale e mentale, che però era totalmente indirizzata nel mondo degli affari, non potesse riservare grande spazio alla famiglia, agli affetti”.

Ilaria Cerioli prova ad elencare i motivi per i quali, a suo parere, il libro è piaciuto tanto. Innanzitutto perché è la fotografia di un’epoca, talmente perfetta che sembra quasi esserci dentro. Poi lo stile di scrittura, “che ricorda un po’ i romanzi ottocenteschi, il romanzo verista, con una descrizione accurata degli ambienti, dei personaggi. E ovviamente l’attenzione all’emotività dei personaggi. Non c’è nessuno di essi – dice – che potremmo paragonare ad un personaggio contemporaneo, perché sono ben definiti all’interno del loro tempo”.

“Tu hai parlato giustamente del romanzo ottocentesco – conviene la scrittrice –  perché rappresenta sicuramente il modello di base da cui parto sia per formazione culturale. È vero, io non sono laureata in lettere ma in giurisprudenza ma è altrettanto vero che la formazione è quella del liceo classico, quindi tanto studio sull’Ottocento sia italiano che inglese, una grande passione per il romanzo inglese, dickensiano, prima di tutti. D’altra parte c’è un’attenzione molto moderna anche a un tipo di visione per scena che è tipica del mio romanzo che ha fatto un po’ storcere il naso a qualcuno, che ha detto che è una lettura facile perché sembra quasi una sceneggiatura. Questo è qualcosa che io ho voluto: oggi siamo in una fase culturale in cui non c’è soluzione di continuità fra i metodi narrativi: musica, film, letteratura, teatro si influenzano vicendevolmente. Questo discorso della scrittura mi fa introdurre un altro elemento: che è la scelta del presente storico . E qui c’entrano la mia  laurea in legge e il fatto di avere lavorato presso lo studio di un avvocato visto che gli atti giudiziari  – sottolinea la scrittrice sorridendo – vengono per lo più scritti al presente. Un fatto che mi è stato fatto notare in un incontro precedente da uno dei relatori, avvocato come me”.

Matteo Cavezzali: “Oltre alle vicende personali della famiglia Florio, racconti di un momento in cui sta letteralmente finendo un mondo. In questo, oltre ai grandi autori ai quali  ti hanno paragonato, I Leoni di Sicilia ricorda Via col vento, per il tipo di suggestioni anche visive. Un mondo che sta per finire per confluire nell’unità d’Italia che è un momento anche drammatico, complicato. Come ti sei orientata rispetto a questa vicenda storica?”.

Stefania Auci: “Via col vento è uno dei film più amati dalla mia editor, e questa notizia so già che la farà sorridere non poco. Per quanto riguarda il racconto della storia dell’unità d’Italia se si va a guardare bene ci sono forti polarizzazioni. Da una parte c’è chi sostiene: in Sicilia e nel Sud d’Italia non stava poi così male e con l’avvento dei Savoia è peggiorato tutto. Dall’altra parte c’è invece chi afferma che la Sicilia e il Sud d’Italia facevano schifo e i Savoia hanno migliorato tutto. La verità secondo me, come sempre sta nel mezzo. Perché se è vero che il Sud e la Sicilia vivevano uno stato a macchia a leopardo di particolare arretratezza, e altrettanto vero che l’avvento dei Savoia è stato anche deleterio da diversi punti di vista. L’unità d’Italia – è la convinzione della Auci – non è stata fatta per gradualità. Abbiamo avuto tutta l’epica che ci racconta la storiografia di qualche decennio fa, ma è anche  altrettanto vero che Garibaldi e i suoi hanno spesso avuto un atteggiamento più da occupanti che da liberatori. Se ne parla poco, però ci sono state diverse fucilazioni di massa da parte dei garibaldini nei confronti dei contadini che non volevano unirsi alle truppe garibaldine, perché questi contadini, semplicemente avevano paura delle ritorsioni o delle rimostranze del padrone delle terre sulle quali lavoravano”.

Non solo. “Quando arrivano i Savoia – spiega la scrittrice – dismettono completamente la macchina amministrativa borbonica che, pur con tutte le sue pecche, era comunque ben radicata nel territorio e la sostituiscono con funzionari, sistema di tassazione, lingua, tipo di relazioni personali piemontese. Quindi è come se ci fosse stato un vero sistema di occupazione che non aveva alcun legame con il territorio. Immaginate allora il funzionario piemontese che arriva a Palermo, che si deve relazionare con i contadini che gli parlano in dialetto palermitano che lui non conosce. C’è poi una seconda barriera, oltre quella del dialetto che è quella del denaro: viene cambiata la moneta, il sistema fiscale viene completamente stravolto e, soprattutto, viene introdotta la leva militare obbligatoria per tutti i cittadini del Sud e della Sicilia. In un sistema economico molto arretrato, togliere quattro figli che ti lavorano la terra ad una famiglia significa che tu non riesci più a portare il mangiare a casa. Ecco che succede che si scappa, si va sulla montagna, si diventa renitenti alla leva e spesso chi va sulle montagne finisce per diventare un bandito. Il banditismo viene represso, non viene capito, non viene spiegato. E l’esercito che sparava contro questi banditi  era costretto ad avere questo atteggiamento: si trattava di persone del nord altrettanto povere che si rendevano conto di andare a sparare contro persone che erano più povere di loro”.

Stefania Auci

 

Ilaria Cerioli affronta uno dei temi più importanti de “I Leoni di Sicilia”: il rapporto della famiglia Florio con l’aristocrazia palermitana, un’aristocrazia “molto ostica, arretrata, conservatrice”. Quindi: “È stata un po’ un limite dei Florio la scalata al successo sociale o un punto di partenza e un volano per la loro impresa economica?”

“In realtà  un po’ l’uno e un po’ l’altro” è la risposta dell’autrice. In sostanza: “Se nella prima parte della loro storia la tensione al riconoscimento sociale dell’aristocrazia li porta ad avere un ruolo di primaria importanza, nella seconda fase della loro evoluzione che è quella su cui sto lavorando nel secondo volume, finisce un po’ per indebolirli, per impoverirli. I Leoni di Sicilia raccontano la fase dell’ascesa. C’è questa aristocrazia che ha il terrore di vedersi sottrarre i propri privilegi, perché i tempi stanno cambiando. Si affaccia alla ribalta della società una borghesia, soprattutto una borghesia culturale portatrice di un nuovo afflato, di una volontà di vivere la politica in una maniera del tutto diversa. Qual è il problema? Che questa borghesia ha pochi uomini, poche risorse e anche troppo poco potere. Una cosa che molti non sanno: la rivolta del 1848 parte dalla Sicilia, e parte perché c’era una borghesia e un gruppo di intellettuali che si era formato in Inghilterra e in Francia, che avevano portato nell’isola un determinato tipo di credo politico che però non attecchisce. Perché? Perché c’è un momento in cui l’aristocrazia che timidamente sembra interessata, poi si tira indietro perché ha paura di perdere i suoi già scarsi fondi, alla fine è una questione di soldi, non di credo politico. Questo fa sì che anche i grandi borghesi, i Florio in primo luogo, si ritirino a loro volta. – dice l’autrice – Da un certo punto di vista, per tutta la prima parte della sua vita Vincenzo Florio cerca di ottenere un riconoscimento nobiliare. Poi è come se scattasse qualcosa e rimane orgogliosamente borghese ed è la stessa cosa che trasmette al figlio che quando acquista le isole Egadi anche se potrebbe ma lui rifiuta il titolo di principe di queste isole: io rimango un imprenditore, rimango un industriale”.

Cavezzali coglie la palla al balzo:  “La famiglia al centro di tutto: come ti sei avvicinata a questa entità? C’è una specificità italiana o siciliana? Stefania Auci: “Sicuramente un’identità siciliana c’è. Sono andata a rileggermi un po’ dei testi che erano parte delle mie letture giovanili: I Vicerè, Il Gattopardo e un altro libro importante, La casa degli spiriti di Isabel Allende. La famiglia checché se ne dica, è tutt’altro che morta e sepolta. La famiglia intesa come nucleo di potere che può essere anche spaccata e divisa al suo interno ma che all’esterno si presenta come una sorta di falange unita in tutte le sue componenti. Una famiglia che prima ancora di essere tale è una holding perché il potere economico più degli affetti, del sangue cementa le relazioni fra le persone. Chi mette in piedi un impero economico vuole sapere che può trasmetterlo e carica sulle spalle dell’erede designato questo potere che viene dato dal denaro. I Florio finiscono per vari motivi, ma anche perché la famiglia si insterilisce. Il bambino, l’erede designato muore a quattro anni. E quanto ti muore un figlio di quattro anni e hai una situazione di dissesto economico grave non hai neanche più la voglia di pensare alla continuità”.

Dalla famiglia alle donne di casa Florio il passo è breve e inevitabile. “Da una parte – dice Ilaria Cerioli – abbiamo Giuseppina, donna tutta di un pezzo, che sa stare al suo posto, che segue in silenzio l’evoluzione del marito e poi del cognato, che nasconde il suo affetto nei confronti di quest’ultimo e poi abbiamo Giulia che è la figlia del tempo nuovo. Queste figure femminili quale parte hanno nell’evoluzione di questa famiglia? La figura di Giulia così trasgressiva che influenza ha avuto nel progresso anche economico del marito e della famiglia stessa?”.

“In generale tutte le donne dei Florio hanno avuto un peso fondamentale – sottolinea l’autrice -. Giulia è stata una sfida, una figura che ha dei tratti di grande modernità, una donna che compie scelte molto consapevoli, molto forti, all’interno di una storia in cui le donne non hanno spazio. La grandezza di Giulia sta in questo: nella sua resilienza, nella sua capacità di assorbire il colpo dettato dall’essere una donna in ombra, una donna che accetta una relazione fortemente negativa dal punto di vista sociale e accetta anche il mancato riconoscimento delle figlie che vengono legittimate molto tardi, con la nascita dell’erede. Il matrimonio riparatore si celebra un anno dopo la nascita del figlio maschio. Questo ci fa capire da una parte il grande coraggio e, permettetemi la battuta, il fegato grosso così che doveva avere questa donna, e dall’altra purtroppo l’indifferenza che aveva Vincenzo nei confronti dei legami familiari”.

Matteo Cavezzali introduce il tema del secondo romanzo sulla saga dei Florio, visto il successo travolgente del primo, e chiede all’autrice se sente la pressione psicologica. Lei  fa capire di sentire sulle sue spalle un po’ di responsabilità. “In tutto questo ho due benedizioni. La prima è che scrivo tantissimo e in fase di editing si tratterà di prosciugare, e dall’altra parte ho la fortuna di avere una casa editrice alle spalle che si sta preoccupando di non farmi sentire la pressione. Ovviamente la tensione la sento perché ad ogni presentazione, l’ottanta per cento delle persone chiede: ma quando esce il secondo romanzo? Vi prego, con calma…”.

Infine l’ultima domanda sulla vicenda editoriale che ha segnato la storia del libro. Anche “I Leoni di Sicilia” come tanti altri best seller ha avuto un percorso tormentato. “Perché certi editori non comprendono le potenzialità di libri che poi si rivelano dei successi? Che cosa c’era in questa storia che tu avevi visto e che hanno ritrovato migliaia e migliaia di lettori?“, chiede Matteo Cavezzali.

La scrittrice ammette di avere avuto diverse difficoltà nella stesura del romanzo “nel trovare il giusto equilibrio fra la Storia e le storie. All’inizio questo equilibrio era molto sbilanciato”. Nello stesso tempo dopo avere compreso che le obiezioni che portavano a rifiutare il romanzo erano in realtà critiche costruttive, Stefania Auci si è rimboccata le maniche, ha riscritto alcune parti del testo, ne ha tagliato e modificate altre. Terminato il lavoro,  il libro è stato portato nuovamente agli editori e la casa editrice Nord, racconta l’autrice, “ li ha bruciati tutti, con una velocità di lettura che ha stupito sia me che la mia agente, tanto più che la persona che poi mi ha confessato, era molto scettica, ha letto il manoscritto in una notte. Questa persona è la mia direttrice editoriale. Le sarò sempre grata per come continua ad insegnarmi questo lavoro, per i suoi suggerimenti: è bello quando riesci ad incontrare delle persone con le quali riesci a lavorare bene. Poi è anche vero che ciascun lettore trova nel testo cose differenti in cui si rispecchia. Il libro, qualunque libro, è uno specchio, in cui ciascuno di noi vede una parte di sé. Uno specchio deformante? Realistico? Non lo so – conclude l’autrice – ma ciascuno di noi si vede”.

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