Ivan Simonini: Mario Battistini e l’Ultimo del colera… fino all’ultimo del coronavirus

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Riletto ora, a 25 anni dalla pubblicazione, Ultimo del colera di Mario “Augusto” Battistini, sorprende ancora e anche per le evidenti analogie con le attuali vicende del coronavirus.

Brillante giornalista di trincea e geniale scrittore di fantascienza, fondatore del settimanale Il nuovo ravennate, caporedattore della cronaca di Ravenna de l’Unità, collaboratore di Paese Sera, già consigliere comunale del PCI e capufficio stampa del Comune di Ravenna con le prime giunte di sinistra, Battistini fece appena in tempo, nell’ottobre 1995, a dedicare la sua estrema fatica letteraria al personale sanitario ravennate che l’aveva accudito senza risparmiarsi, negli ultimi mesi del suo ricovero, consentendogli di portare a termine l’opera da lui scritta, dopo puntigliosa ricerca documentale, sull’epidemia di colera che nella provincia di Ravenna imperversò dal 12 dicembre 1854 al 9 novembre 1855, quando la Deputazione Sanitaria Comunale dichiarò esaurita la pestilenza.

La scrittura personalissima di Battistini privilegia, oltre ai dati storici, i reperti emozionanti di quell’esperienza concreta della popolazione ravennate che diviene così paradigma di tutte le epidemie in ogni luogo e in ogni tempo.

A metà ‘800 la provincia di Ravenna ha 50.000 abitanti e nella dolorosa graduatoria nazionale del secolo vanta il primato per la scarlattina, il secondo posto per il tifo e solo Roma e Pisa risultano più colpite dalla polmonite. Nel traballante Stato Pontificio (che passerà la mano nel 1859) le carestie sono all’ordine del giorno ma Ravenna sta a suo modo all’avanguardia: è una delle poche città dotate di lazzaretto, cioè di un servizio di degenza per gli infetti.

Dopo il primo caso del dicembre 1854, il morbo asiatico continuò sì a uccidere, ma con decrescente vigoria, concedendo addirittura un bimestre di pausa da metà gennaio a fine marzo 1855, quando la subdola illusione lasciò il posto a un’improvvisa e progressiva recrudescenza: 15 morti in aprile, 60 in maggio. Il 6 giugno l’Arcivescovo chiude le scuole pubbliche. Ma bisogna aspettare luglio per il primo “avviso” municipale. Si persero cioè diversi mesi prima di adottare misure (più o meno come oggi). In luglio già non si vede nessuno per strada.

In compenso cominciano a pullulare gli incendi abusivi ovunque, poiché si spera che il fuoco annulli il “vibrione” bruciando i beni posseduti dalle vittime che naturalmente sono più in città che in campagna. Per disinfestare gli ambienti le autorità consigliano il cloruro di calcio. Come oggi, anche allora gli esperti litigano, a volte furiosamente, tra di loro, lasciando irrisolto l’enigma se sia un’epidemia o una pandemia e di quale sia l’origine del contagio, controversia sbrigativamente “risolta” colpevolizzando un galeone turco che aveva scaricato grano, tabacco e dolciumi nel porto della città.

Il 23 agosto, festa di S. Apollinare, si contano sulle dita di una mano gli sparuti fedeli presenti all’omelia in Duomo. In un sol giorno, 26 agosto 1855, si censiscono 29 sepolti. L’acqua è introvabile. Per consolarsi vino a volontà. Ma proprio il vino diventa, nell’immaginario collettivo malato, un pericoloso canale di diffusione del morbo. Tanto che, il 22 settembre 1855, il Gonfaloniere del Governo Pontificio, Conte Giulio Facchinetti Pulazzini, emanò un “perentorio” avviso contro il micidiale flagello: ognuno doveva far ripulire ogni giorno la strada di fronte alla rispettiva casa o bottega; divieto di abbruciare nelle pubbliche strade ed anche nei cortili ed orti interni pagliericci e oggetti appartenuti ai deceduti e da portare invece nelle adiacenze della Rocca o allo Sterquilinio fuori Porta Sisi, luoghi deputati per ivi essere abbruciati; i trasgressori delle prescrizioni sottoposti a multe pecuniarie e, se insolventi, a 8 giorni di carcere; astenersi da carni malsane, da frutti sempre nocivi e dai tanto pregiudicievoli vini nuovi.

Le autorità pubbliche, che a Ravenna registrarono 1.055 decessi, si dimostrarono come sempre meno efficienti delle “autorità” ecclesiastiche: il Cappellano del cimitero di Ravenna di decessi ne aveva contati 1.139, a cui si dovevano aggiungere i 538 interrati nelle fosse comuni, in altri cimiteri e nelle cappelle private, per un totale di 1.677 morti d’epidemia su un totale di 2.694 casi di infezione da colera.

A fine ottobre 1855 venne registrato un tal Muti come ultimo del colera. Si sparse subito la voce che a Ravenna il contagio era vinto. E così Luigi Dall’Oglio venne dal lughese a cercare lavoro proprio a Ravenna perché lì il colera non c’era più. Morirà di colera il 31 ottobre.

Al cimitero di Ravenna non s’era mai vista un’affluenza come quella dell’ 1-2 novembre 1855: chi era sopravvissuto voleva assolutamente controllare di persona chi era morto.

Nel titanico conflitto cui da sempre le epidemie hanno costretto l’umanità sono derivati – oltre ai relativi guai e relative rinascite – capolavori artistici straordinari che fanno del “genere pestilenziale” un filone alto della letteratura mondiale. Basti pensare al De rerum natura di Lucrezio di due millenni fa e al Decameron di Boccaccio di settecento anni fa. E ai vari trattati in materia del poligrafo cinquecentesco Tomaso Garzoni da Bagnacavallo o al De contagione di Girolamo Fracastoro cui si deve anche uno dei primi testi scientifici sul mal francese (sifilide). O più recentemente al Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe o a I promessi sposi di Manzoni (dove compare l’emblematico personaggio di Don Ferrante, erudito secentesco che, poco dopo aver irriso la paura di massa della pestilenza e aver scientificamente dimostrato che la peste non esiste, di peste morì maledicendo le stelle matrigne). Fino al ‘900 con La peste di Camus, L’amore ai tempi del colera di Marquez, Cecità di Saramago, per non parlare delle pestilenze del linguaggio citate dalle Lezioni Americane di Italo Calvino. Il millennio si conclude nel 1998 con Mal’aria di Eraldo Baldini da S. Pancrazio (da cui nel 2009 verrà tratta una miniserie TV su Rai 1). Solo qualche anno prima, l’altro russiano Mario Battistini con Ultimo del colera si era inserito a pieno titolo in questa affascinante vena nobile della narrativa universale.

Quanto a noi, che per rilanciare l’economia dovremo puntare nei prossimi mesi sul turismo e sul consumo interno e che ancora non abbiamo capito chi è stato il primo del coronavirus, cerchiamo almeno di non sbagliare l’ultimo.

Ultimo del colera

Copertina di Ultimo del colera, di Mario Battistini. Il volume uscì postumo, nel novembre 1995, un mese dopo la morte dell’Autore. Oltre 200 pagine a cura di Nino Carnoli per le Edizioni del Girasole, con una ventina di disegni in bianco e nero (ma stampati in quadricromia) realizzati appositamente da Mattia Battistini, figlio di Mario. Il volume è ormai in esaurimento.

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Commenti

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  1. Scritto da Rock Bottom

    … Nemesi, di Philip Roth.

  2. Scritto da Rock Bottom

    E il bellissimo Nemesi di Philip Roth.