Paola Bianchi (centro Liberamente Ravenna): “Crisi porta con sé il seme del cambiamento”

Dopo oltre due mesi di lockdown causa pandemia Covid-19, gli italiani si trovano ora ad affrontare le prime fasi di ripartenza pervasi da un misto di insicurezza e timido slancio verso il futuro, riflesso molto probabilmente del dualismo che molte persone si sono trovate ad affrontare durante i mesi di ‘detenzione’. Da un lato le difficoltà e al contempo i benefici di trovarsi maggiormente a contatto con se stessi, potendosi riappropriare del tempo con minor frenesia, dall’altro lato l’incertezza di un futuro già precario aggravatosi maggiormente a causa della paralisi economica e sociale, adottata inizialmente dal Governo italiano per impedire conseguenze ancor più gravose. L’essere umano è animale sociale e l’isolamento, giocoforza, tende a produrre conseguenze negative nelle persone.

Tuttavia, la singolare quanto inedita situazione di ‘detenzione’, nella quale le distanze umane si sono ‘accorciate’ se non annullate, ha forse favorito una maggior conspevolezza di se e delle altre persone, recuperando un po’ il senso di comunità. La pandemia, ad esempio, ha evidenziato come la salute non possa essere pensata quale bene privato ma debba essere piuttosto bene sociale, favorendo dibattiti sul ripensamento del sistema economico e sociale non solo dell’Italia.

Ne abbiamo parlato con Paola Bianchi, psicologa, psicoterapeuta, psicologa clinica e fondatrice del centro Liberamente di Ravenna.

L’intervista

Il periodo di emergenza durato circa tre mesi che tipo di strascichi ha causato principalmente nelle persone?

“E’ ancora presto per dirlo a mio avviso anche se si stanno effettuando ricerche ed analisi del fenomeno pandemia da Covid 19 che certamente come afferma lo studioso Bessel Van Der Kolk ha tutte le caratteristiche per essere definita una condizione pretraumatica, cioè che potrebbe preparare il terreno allo sviluppo di una traumatizzazione psicologica poiché coinvolge diversi aspetti centrali della nostra vita: la malattia e la sicurezza fisica, le condizioni economiche e il costo psicologico del vivere rinchiusi in casa e separati dagli altri. Il mondo improvvisamente non è più prevedibile a causa di un evento che irrompe nella nostra quotidianità e ci costringe a casa, perdendo molte delle connessioni con
le nostre attività abituali, accentuando un senso costante di insicurezza e minaccia. L’ambiente circostante diventa così più imprevedibile e spesso questo si tramuta in una maggiore fragilità interna e senso di precarietà. A questo si aggiunge una situazione economica incerta e nebulosa che va ad intaccare il proprio vissuto interno su ciò che è della nostra realizzazione, condizione e potenzialità. Un’ampia sintesi pubblicata su The Lancet attesta che l’isolamento può causare depressione, ansia, paura, insonnia, confusione, fino a manifestazioni in linea con aspetti di reazione post traumatica che necessitano di molti mesi, a volte anni, prima di consentire ai singoli di rientrare in una condizione di normalità simile a quella precedente all’emergenza. Chiaramente questi aspetti sono modulabili e non identici per tutti, ognuno reagisce con le proprie risorse e ci sono situazioni che possono drasticamente peggiorare come altre
che invece migliorano”.

Quali aspetti positivi invece ha apportato dal punto di vista psicologico o comportamentale?

“Inizialmente il tempo sospeso e rallentato ha permesso a molti di riappropriarsi di ritmi più sani e spesso le relazioni familiari hanno compensato quelle esterne venute a mancare. Ci siamo anche ritrovati a tu per tu con noi stessi e non sempre è facile fare i conti con se stessi, ma voglio pensare che sia stata un’opportunità per coltivare una maggiore consapevolezza e conoscenza di sé e degli altri. Ultimo aspetto incoraggiante di cui ci siamo sicuramente accorti è la nostra capacità di adattamento che Piaget definiva come una qualità dell’intelligenza. Se vi aggiungiamo una buona dose di responsabilità individuale direi che il mix è perfetto. Cerchiamo di farne un buon uso”.

Come ha visto i ravennati in questa delicatissima fase di ripartenza dal punto di vista psicologico?

“L’ultima settimana della fase 1 è stata contrassegnata da malumori diffusi, insofferenza e perplessità. Con ansia si attendevano i comunicati del Presidente del Consiglio e quando è stata proclamata la fase 2 le parole più gettonate erano “ripresa, ricominciare, apertura” e la nostra mente si è orientata alle nuove possibilità e ad un nuovo inizio anche se con tutte le limitazioni del caso per continuare a contrastare il progredire del contagio. Mi pare ci si muova fra due atteggiamenti distinti: cautela e rispetto delle regole e tentativi di trasgressione ed evitamento del problema. Entrambi se presi in maniera spuria sono manifestazioni prive di contenuto se non vengono assimilate e arricchite di senso che solo ciascuno di noi può attribuire e che passa a mio avviso necessariamente dal legame che esiste fra individuo (Io) , l’altro (Tu) e la collettività (Noi). Mai come ora questo virus globale ad esempio ci ha messo di fronte
l’evidenza che la salute non possa essere pensata come un bene privato ma sia necessariamente un bene sociale e se anche ognuno di noi la vive in modo differente questa vicenda riguarda tutti. Nessuno escluso. Siamo individui certamente ma con diritti e valori comuni”.

E’ fiduciosa circa una maggiore consapevolezza da parte delle persone in questa fase di ripartenza, considerando i mesi di lockdown?

“Una crisi porta con sé il seme del cambiamento e mi piace pensare che siamo esseri pensanti, intelligenti e capaci di prendere decisioni e fare scelte importanti. Il sentimento comune alla vigilia della fase 2 sembrava essere quello di ritornare alla vita di prima con l’euforia di chi vuole recuperare il tempo perso. Nulla di più.
Ma fermiamoci un momento, cosa abbiamo veramente perso? Cosa ci manca realmente? Penso valga la pena chiederselo”.

Tra le categorie più colpite quella dei ‘millenials’, il cui percorso di vita è stato martoriato dapprima dalle conseguenze della crisi del 2007/2008 e poi dalla pandemia Covid-19. Per quale motivo, a suo giudizio, se ne parla poco attraverso i principali canali d’informazione?

“Ogni crisi crea nuove disuguaglianze. Quella del 2008 rese evidente il divario generazionale che separava i millennials dai propri genitori. Per la prima volta dal dopoguerra fu chiaro che una nuova generazione sarebbe stata più povera di quella precedente. La catena della cosiddetta “crescita” si spezzava lasciando un’intera generazione nelle contraddizioni di un sistema economico che predicava la crescita continua e di fatto aveva iniziato a invertire la rotta. Quella crisi oltre che economica diventò una crisi psicologica. La generazione dei millenials perse fiducia nel futuro.
E se perdo fiducia mi deprimo, smetto di lottare per ciò che desidero. Perdere fiducia nel futuro significa ad esempio smettere di lottare per il cambiamento, ovvero smettere di lottare per un cambio generazionale nei luoghi delle decisioni importanti.
Forse non si parla di loro perché hanno smesso di essere una voce unica, precari o inesistenti come identità collettiva, esistono per lo più sui social abbandonando le piazze. E una comunità senza fiducia collassa, si confonde, perde motivazione”.

Bambini e anziani sono stati costretti ad un maggior isolamento rispetto alla ‘normalità’ mediamente parlando durante il lockdown. Che tipo di conseguenze può aver avuto questa condizione?

“Ogni bambino sta reagendo alla pandemia e all’isolamento sociale con modalità differenti, ma la costante è che ciascuno di essi riflette il mondo emotivo della famiglia di appartenenza. I bambini regolano le loro emozioni sulle emozioni del genitore, quindi se il genitore si trova in grado di superare lo stress, il bambino si adatterà più facilmente. Quello che bisogna evitare è proiettare su di loro le nostre paure di adulti. Dobbiamo garantirgli la massima qualità psicofisica, organizzare il loro tempo scandendo una routine prevedibile e aiutarli a sostenere la rete di amicizie con nuove modalità.
Possono tuttavia manifestarsi emozioni come paura, rabbia, impotenza che il bambino esprime con modalità tipiche della sua età: nei più piccoli troviamo pianto, capricci, irrequietezza, irritabilità, perdita di appetito o di sonno, viso intristito, mentre nei più grandi possono presentarsi dolori addominali, inappetenza, mal di testa.
Attraverso questi atteggiamenti, infatti, i bambini ci chiedono protezione, conforto, rassicurazione, sollievo dalla loro sofferenza. Quello che dovremo fare è ascoltarli, rassicurarli, accogliere e contenere le loro paure e restituirgliele modificate, più accettabili e comprensibili.
Come gli anziani, anche i bambini credo rappresentino la fascia di popolazione più penalizzata, avendo perso la dimensione sociale, il contatto con gli altri. Il nostro modo di comunicare è costituito in buona parte anche di una rete di relazioni fatta di abbracci, contatti fisici, sguardi ed espressioni di vicinanza. All’improvviso tutto è venuto a mancare, perché vietato! Così i nostri bambini hanno dovuto apprendere il distanziamento sociale e corporeo, procedendo ad una sua interiorizzazione inconsapevole. Credo sia capitato a molti di sperimentare un senso di disagio nell’incrociare uno sconosciuto al supermercato piuttosto che per strada e addirittura evitarne lo sguardo perché avvicina troppo. Che conseguenze avrà questa nuova prossemica? Riusciremo a recuperare un contatto con l’altro privo di insidie e minacce? Quale nuovo linguaggio troveremo per essere e stare nel mondo? Mi rendo conto di fare più domande che dare risposte, ma d’altronde è il mio mestiere”.

A cura di Alessandro Bucci