Pupi Avati ospite di ScrittuRa Festival racconta il suo Dante dal volto umano 

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Che differenza c’è fra scrivere la sceneggiatura di un film o scrivere un libro? “Quando scrivo per il cinema la mia immaginazione è grande quanto è grande il budget, la letteratura invece ti permette ogni cosa”. Parola di Pupi Avati. Il regista questa mattina è stato protagonista, anzi il mattatore, dell’anteprima di Scrittura Festival al Palazzo dei Congressi di Ravenna.

Un incontro coinvolgente, divertente, a tratti commovente, in cui il regista-scrittore, servendosi anche di aneddoti coloriti, ha parlato del suo progetto su Dante: un romanzo “L’alta fantasia” edito da Solferino da poco uscito nelle librerie e appunto un film che vedremo prossimamente nelle sale.

Due lavori complementari l’uno all’altro legati dal medesimo obiettivo: raccontare il “Dante uomo” attraverso lo sguardo del Boccaccio, un Dante per molti aspetti inedito, ma non per questo meno interessante. Dopo un breve saluto dell’Assessore Giacomo Costantini in rappresentanza del Comune, l’incontro è stato coordinato come da prassi, da Matteo Cavezzali, scrittore e sceneggiatore, nonché anima del Festival che quest’anno si appresta a rinascere dopo la pandemia.

La prima domanda riguarda la scarsa frequentazione della settima arte con il Sommo Poeta. Fatta eccezione per un film sull’Inferno che risale all’inizio del secolo scorso infatti, nessun regista si è mai cimentato su questa figura cruciale della letteratura mondiale.

Come mai?” chiede Cavezzali.

Io penso che questo dipenda da un senso di inadeguatezza di fronte ad un essere ineffabile, misterioso, onnisciente”, risponde il regista che ammette di avere visto appena pochi minuti del vecchio film del 1911 da lui definito “una goffa cosa”.

Poi per spiegare il suo legame con Dante parte da lontano. Pupi Avati racconta di quando era clarinettista in una band e di quando si accorse di non avere talento per la musica, tutto il contrario di Lucio Dalla, che suonava il clarinetto come lui, ma con ben altri risultati.

Pupi Avati ospite di ScrittuRa Festival racconta il suo Dante dal volto umano 

Nel confronto con Lucio Dalla mi resi conto che non sarei mai diventato un grande musicista, lui era un genio, qualunque cosa toccava diventava poesia. A 25 anni quindi, ho smesso di suonare e mi sono trovato a questo punto della mia vita sprovvisto di sogni”. Ma Dante cosa c’entra? C’entra, c’entra, abbiate un po’ di pazienza. “Le ragazze negli anni 60 – racconta al pubblico che appare molto divertito – erano molto fortunate perché avevano molti ragazzi che stavano loro dietro. Io stavo dietro a una certa Paola Zuccotti e se giravi sotto i portici di Bologna non c’era ragazza che non avesse qualcuno che le stava dietro”.

Ecco che a questo punto che il giovane Pupi Avati incontra il Dante della “Vita Nova”. Si trova allora a leggere di un bambino che ha perso la mamma, Dante, appunto, di un padre che subito si risposa, di Dante che viene ospitato dalla famiglia di un vicino di casa, Folco Portinari, che ha 11 figli, fra cui Beatrice.

Dante ha 9 anni quando incontra lo sguardo di questa bambina, se ne innamora e comincia ad andare dietro alla Beatrice”. Ma è lo sguardo e il fugace saluto che Beatrice gli rivolge 9 anni dopo a cambiare la storia della poesia nel mondo e a segnare Dante per sempre.

Ho girato questa scena nel film ed ero talmente emozionato, commosso, coinvolto che non riuscivo a dire stop. Avrei voluto che quella scena durasse per sempre”. Per sempre, un’allocuzione avverbiale bellissima – sottolinea Pupi Avati – che oggi non si usa più. Allora noi ragazzi quando parlavamo d’amore ce lo promettevamo, è un modo di concepire irrazionale, ma che dilata il tempo”.

Ed ancora: “Dante è tramortito dall’emozione di quello sguardo. Va a letto e si addormenta e sogna Beatrice fra le braccia di Amore che mangia il suo cuore. Ho girato questa scena nel film e non ho mai visto una troupe così concentrata, così interdetta”.

Cavezzali“Il Dante che racconti nel romanzo è un Dante molto vivo, è un uomo che si innamora e soffre”. E’ un essere umano stretto fra il dolore per la scomparsa prematura della madre e la sofferenza di un amore irraggiungibile. In sintesi: Dante sarebbe stato il Dante che tutti noi conosciamo se non avesse avuto una vita così travagliata?

Il dolore – risponde Pupi Avati – ha un ruolo fondamentale nella qualità di ogni essere umano. Dante poi ha anche vissuto l’ingiustizia dell’esilio, con una vita di accattonaggio fra una corte e l’altra, fino ad arrivare a Ravenna che ha svolto un ruolo di accoglienza affettuosa. Non potevo esimermi dal venire qua, nel libro Ravenna c’è molto. Tutte le volte che sono in difficoltà penso alla grande sofferenza di Dante e mi chiedo: che alibi possiamo avere noi?”.

Ma nel romanzo c’è anche il Dante che provoca dolore. Del resto “Dante con sua moglie Gemma Donati – conviene il regista-scrittore – si è comportato così, così”. Tornando al film, Pupi Avati ricorda che è stato l’ultimo lavoro di due attori che non ci sono più. “Il primo – dice – è un uomo a me molto caro: Gianni Cavina, stava male, ha girato la sua parte in un letto. L’altro è Paolo Graziosi: veniva sul set che era in chemioterapia, ma io non lo sapevo”.

C’è spazio anche per le domande del pubblico. Il consigliere comunale Daniele Perini ricorda che il convento di Santo Stefano degli Ulivi dove si trovava la figlia di Dante con il nome di suor Beatrice c’è ancora e che è diventato una palestra dei vigili. Probabilmente lì si trovano le ossa dei figli di Dante e il consigliere invita il regista a farsi portatore della richiesta che queste ossa vengano risposte insieme ai resti del padre custoditi nella tomba dietro la basilica di San Francesco.

“Suor Beatrice lo meriterebbe di sicuro, lei rimase a vegliare le ossa del padre”, dice il regista. Infine l’ultimo aneddoto, prima del firma copie. Non c’entra nulla con Dante, premette Pupi Avati, ma il pubblico che fino a quel momento non si è perso una parola, non vuole perdersi neppure quel racconto, dedicato, come precisa il regista “ a una persona a me cara”. Tutto avviene quando Pupi Avati inzia a muovere i primi passi come regista insieme al gruppo del bar Margherita.

Siamo nel 1968, un anno, in cui, pare fosse abbastanza facile avere finanziamenti anche per fare film di serie B. Un fantomatico Mister X, sborsa 160 milioni di lire per una pellicola dal titolo improbabile che, confessa Avati, andò piuttosto male, tanto che “il gruppo di ragazzi del bar Margherita voleva sciogliersi”.

Allora il regista tenta il tutto per tutto e torna da Mister X. Dimostrando una notevole faccia tosta riesce ad ottenere un secondo finanziamento. Questa volta però, non si può sbagliare. Vengono chiamati due attori inglesi, per il ruolo della protagonista si cerca una ragazza che somigli a Grace Kelly. La ricerca viene effettuata a Milano. Si presentano 120 ragazze ed “ecco che vedo entrare Grace Kelly”: è una ragazza giovanissima di Milano, somigliantissima alla bellissima ed elegante attrice de “La finestra sul cortile”.

Pupi Avati soddisfatto, torna a Ferrara dove sta girando il suo film. Ma quella che all’indomani si presenta sul set non è la “finta” Grace Kelly, ma un’altra ragazza più alta, riccia e scura di capelli: “La mia amica non è potuta venire e a mandato me”, si giustifica. Il regista si dimostra molto contrariato, la manda via in modo che si intuisce sgarbato, ma lei non demorde. Di fronte alla sua ostinazione Pupi Avati si arrende: la parte è di questa ragazza che si è tenuta aggrappata alla sua opportunità con le unghie e con i denti.

La mattina dopo, quando comincia a recitare, la troupe si ammutolisce e pure il regista: “Le parole che avevo scritto non mi erano sembrate così belle, era la prima volta che sul mio set c’era verità”. Finita la scena Pupi Avati si avvicina alla ragazza. “Come ti chiami?”, chiede. “Mariangela Melato” è la risposta.

di Roberta Emiliani  

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