Gianrico Carofiglio a ScrittuRa Festival: dalla magistratura alla tv attraverso la letteratura e “La disciplina di Penelope”

Più informazioni su

Scrittore molto apprezzato e popolare, con un passato da magistrato e adesso anche personaggio televisivo con “Dilemmi”, programma di Rai 3: Gianrico Carofiglio è stato ospite ieri sera, 12 maggio, al Teatro Alighieri di Ravenna, di ScrittuRa Festival, per presentare il suo ultimo libro “Rancore” che sancisce il ritorno in libreria dell’ultimo personaggio in ordine di tempo creato dalla sua fantasia: quello dell’ex PM Penelope Spada.

L’incontro ha avuto momenti divertenti ma anche profondi che hanno mostrato un Carofiglio in gran spolvero, accolto dai presenti con affetto e da numerosi applausi. Ecco la cronaca della serata. Matteo Cavezzali, che ha il compito di dialogare con Carofiglio, decide di prenderla alla lontana. “La tua storia di scrittore – dice – è particolare e mi piacerebbe indagarla un po’ con te”. Il direttore del Festival cita quindi un’intervista di qualche tempo fa, dove l’autore di tanti romanzi di successo ma anche di saggi, racconta che fare lo scrittore era il suo sogno fin da ragazzino ma che ad un certo punto della sua vita, dopo una serie di tentativi andati a vuoto, si era quasi convinto che non ce l’avrebbe mai fatta. “E invece, non solo sei riuscito ma sei diventato lo scrittore più letto in Italia. Cosa è successo?”.

Anche Carofiglio la prende una po’ alla lontana e fa precedere la risposta alla domanda da un buffo preambolo. “Quanto sento qualcuno introdurre una conversazione con me facendo riferimento a quello che ho detto in un’intervista beh, devo dirlo con tutta franchezza: ho paura. Io sono incline a sparare fesserie: è una questione di sopravvivenza”. A sostegno della sua tesi, cita Stephen King: “Nelle interviste devi dire qualcosa, è una questione di sopravvivenza. Ad esempio, quando mi chiedono quando scrive lei? Io rispondo tutti i giorni tranne Ferragosto e Natale. Non è vero, naturalmente, scrivo anche a Ferragosto e a Natale. Credo che, nelle numerose interviste che ho rilasciato nel mio dilagare mediatico, si annidino anche sciocchezze clamorose, questa invece che hai citato è abbastanza vicina alla verità: fin da piccolo dicevo che avrei voluto scrivere. L’idea di scrivere delle storie e che qualcuno fosse così sconsiderato da pubblicarle, mi ha sempre affascinato, o meglio: avevo accarezzato questa idea anche se poi ripetutamente ci provavo e vedevo che veniva fuori una porcheria. Adesso che ho un po’ più di esperienza so che, quando cominci a scrivere, viene comunque una porcheria e che devi andare avanti. Allora invece mi fermavo perché pensavo di non essere pronto.”

“Poi è arrivato quell’anno, il 2000, in cui ho deciso di farmi venire con un po’ di anticipo la crisi dei quaranta. – continua lo scrittore – È stato un anno spiacevole e alla fine di quell’anno mi è sembrato quasi inevitabile riprovare a scrivere, darmi un’opportunità. Ho cominciato il romanzo nel settembre del 2000 e l’ho finito nove mesi dopo, nel maggio del 2001. Nel 2002 il libro è uscito: oggi fanno esattamente vent’anni. Se qualcuno mi avesse chiesto qualche anno prima del 2002, del 2001, o del 2000 di esprimere un desiderio, avrei detto vorrei riuscire scrivere un romanzo, trovare qualcuno che me lo pubblica e qualcuno che lo compra, poi sarei stato soddisfatto e avrei continuato la mia vita. Giammai avrei pensato di scrivere un romanzo dopo quello e che questo sarebbe diventato un lavoro. Vuoi una spiegazione di questo? Io non ce l’ho, però è andata così e oggi sono qua”.

gianrico carofiglio

Cavezzali: “Tu hai lavorato in Magistratura, partecipando ad indagini importanti che hanno avuto risonanza mediatica. Quando facevi quel lavoro sei entrato in contatto con storie, volti, un’ umanità che con il genere letterario investigativo hanno molto a che fare. Quanto è rimasto nella tua vita precedente in quello che scrivi?”.

Dopo Stephen King, Carofiglio cita Chesterton, il creatore di Padre Brown: “I romanzi si dividono in quelli scritti bene e quelli scritti male. Il riferimento ai contesti investigativi offre un sacco di spunti, su questo non c’è dubbio, perché di per sé il plot delle strutture narrative investigative aiuta ad attirare l’attenzione del lettore. Per quanto mi riguarda a me piacciono le buone storie, però mi piace anche l’investigazione emotiva, psicologica che, se uno ci sa mettere un po’ le mani, messa in parallelo con l’investigazione classica può produrre degli effetti interessanti. Non c’è dubbio: se hai fatto quel tipo di lavoro hai qualche vantaggio, perché sei entrato in contatto con un quantitativo di storie, personaggi, volti, tic, ossessioni, crudeltà nascoste nei luoghi più inattesi e viceversa hai visto umanità in personaggi che non ti aspetteresti: tutto questo è benzina per buone storie di finzione. L’essere entrato in contatto con un grande quantitativo di storie, quindi con la vita e l’aver letto molti libri sono le due precondizioni per scrivere dei romanzi che meritano di essere poi letti. Io credo che l’aver fatto quel lavoro sia stato sicuramente un privilegio ma anche un aiuto a trovare la via della scrittura di buone storie”.

A questo punto Penelope fa il suo ingresso in scena: apparsa la prima volta nell’ambito di un’iniziativa che ha coinvolto vari scrittori, Carofiglio compreso, in occasione dei 90 anni dei Gialli Mondadori, torna come protagonista di “Rancore”. “Come ti è venuta l’idea di creare questo nuovo personaggio?” chiede Cavezzali. Un personaggio, aggiunge “molto complesso, che ti ha obbligato a metterti nei panni di una donna. E non è semplice da un punto di vista narrativo scrivere tenendo la barra salda su un personaggio femminile di questo tipo, con tutte le sue contraddizioni”.

“Io penso – risponde Carofiglio – che nel successo di Guido Guerrieri (il personaggio che lo ha fatto conoscere al pubblico, ndr) ci sia il fatto che nel suo modo di porsi ci siano anche molte sfumature che tradizionalmente si attribuiscono ad un sentire femminile. Devo dire che molti dei personaggi dei precedenti romanzi a cui mi sono appassionato di più erano femminili, però non avevo mai scritto un romanzo con una donna protagonista, addirittura con un io narrante. Avevo cominciato a scriverlo in terza persona, che un modo di scrivere che ti tiene un po’ più distante dal punto di vista dei personaggi, ma dopo un po’ ho pensato che fosse una vigliaccheria: se decidi di provarci, provaci sul serio. Pertanto La disciplina di Penelope e poi Rancore sono stati scritti in prima persona. Penelope è una donna, è questo è stato un po’ più complicato. Ci sono incursioni nella intimità femminile, che sono delle cose che mi sono venute naturali. Come è stato? È stato molto interessante, perché quando cambi il punto di vista cominci a vedere cose che prima non vedevi e se prendi un punto di vista femminile, cominci ad accorgerti di dettagli che prima non notavi, che sono la strada per capire altre cose. Ovviamente se il personaggio è credibile devono dirlo i lettori e soprattutto le lettrici. Una cosa che mi riempie di contentezza è che queste ultime mi chiedano: ma come hai fatto a pensare come una donna in quel tipo di situazione? È uno dei privilegi di scrivere storie con un’attitudine onesta, cercando di raccontare la verità in quel momento, senza trucchi”.

Cavezzali: “Come scegli i nomi dei tuoi personaggi che sono sempre così azzeccati?”

Carofiglio: “Il nome del personaggio di questa storia non era Penelope, ma era Miranda e il titolo del libro che avevo in mente era “La regola di Miranda” e si riferiva a tutt’altro, questo per dire come a volte si proceda a caso. Poi quando ho cominciato a scrivere, mi accorgo che mio fratello che, sfortunatamente per tutti e due scrive anche lui, aveva la protagonista femminile del suo ultimo romanzo che si chiamava Miranda. Lì per lì ho pensato: ma chi se ne importa. Dopo qualche giorno mi sono reso conto che era una pessima idea e quindi ho cominciato a cercare un nome evocativo. Ad un certo punto, davvero non so dire come, è saltato fuori Penelope e ho avuto l’impressione che quello fosse il nome perfetto. La regola di Penelope non mi piaceva come titolo ed è saltato fuori La disciplina di Penelope. Questo ha modificato in modo sostanziale la storia che stavo pensando e il personaggio. Ognuno di noi vede quello che vuole nei personaggi dei libri. È una delle cose meravigliose della lettura, della scrittura. La cosa più importante in un romanzo non è quello che c’è scritto, ma quello che non c’è scritto, ciò che è stato asportato lasciando uno spazio bianco dove si può collocare il lettore per esercitare il suo diritto alla fantasia. Non c’è una sola descrizione di Guerrieri in nessuno dei suoi romanzi, perché quello è uno spazio bianco. Gli spazi bianchi sono gli snodi cruciali fra chi scrive e chi legge, sono quel territorio in cui chi legge si colloca, osserva il mondo insieme a chi scrive, ma non subordinato a quello che scrive chi scrive. È questa l’operazione magica della scrittura, che dà senso alle storie”.

Carofiglio

“In Rancore – sottolinea Cavezzali – ci sono tre piani narrativi”. “Diciamo pure – lo interrompe Carofiglio – che ci sono tre romanzi e quindi (si rivolge al pubblico in modo scherzoso, ndr) vi conviene comprarlo”. “Ci sono tre storie intimamente collegate – riprende Cavezzali – che sono anche di tre generi diversi: una è una storia investigativa, una è una storia d’amore e l’altra è una storia che ha a che fare con la memoria, con il passato. Come è nata una struttura così complessa?”.

“Li ho scritti separatamente. – è la risposta dell’autore – Non è una battuta: sono tre linee narrative che si innestano, si collegano l’una all’altra ma potrebbero anche essere autonome. La storia d’amore potrebbe essere da sola un lungo racconto e gli altri due potrebbero essere due brevi romanzi autosufficienti. La disciplina di Penelope, senza che io avessi fatto un calcolo deliberato, conteneva un sacco di cose in sospeso, soprattutto perché Penelope non fosse più magistrato. Si capiva molto chiaramente che c’era stato un trauma, non si capiva quale tipo di trauma. Non avevo scelto deliberatamente di lasciare questa cosa in sospeso, mi piace pensare di avere applicato il principio dell’iceberg, come lo chiamava Hemingway che affermava che lo scrittore dovrebbe sapere del suo personaggio molto di più di quello che c’è nel libro. Quello che c’è nel libro è la punta dell’iceberg, però lo scrittore deve sapere quello che c’è sotto. O forse sono stato influenzato nella scrittura da un genere narrativo predominante nella modernità che è quello delle serie televisive. Quel primo romanzo breve aveva un sacco di cose, aveva la soluzione di quel caso specifico, ma non rispondeva alla domanda cosa è successo a Penelope. Agli scrittori – ammette Carofiglio – piace molto raccontarsela: come se fossi posseduto da un demone che è quello che ti fa scrivere, i personaggi prendono vita, fanno quello che vogliono loro… diciamo che è una cosa un po’ enfatica, però è vero che qualche volta i personaggi cambiano rispetto a come erano stati pensati all’inizio. Penelope si è guadagnata questo spazio forse sfruttando questo espediente di raccontare la storia del suo passato, forse perché questo era l’espediente per raccontare la nostalgia del lavoro che facevo prima, il magistrato”.

Carofiglio ci tiene a precisare: “Nostalgia, non rimpianto: ho fatto bene ad andarmene quando me ne sono andato, però ho un sacco di ricordi. Ero molto giovane e mi è capitato di fare quel lavoro in anni e in condizioni da un certo punto molto difficili ma per altri aspetti molto gratificanti. Gli anni 90 sono stati gli anni in cui l’attacco criminale in molte parti del nostro Paese è stato particolarmente violento. In Puglia, dove lavoravo io, ci fu un tentativo della criminalità organizzata di tipo mafioso di passare di livello e un gruppetto di noi si è occupato di queste cose. Possiamo dire di aver fermato questa cosa, di averla intercettata mentre si alzava in volo. E questo è stato gratificante, era un bel lavoro e quindi spesso ho nostalgia di quel lavoro, mi manca anche se so benissimo che fossi rimasto in magistratura non avrei potuto continuare a fare questo, sarei a capo di un ufficio e sarei molto triste. Con il personaggio di Penelope ho potuto realizzare quel bisogno, che è quello di raccontare quanto mi piacesse fare il Pubblico Ministero. È ovvio che io e Penelope siamo diversi, ma la sostanza dell’amore per quel lavoro, del pensare a quegli anni dove succedono cose tremende ma anche mitiche, sono state riversati nel personaggio di Penelope che è un personaggio dalle forti connotazioni autobiografiche”.

Cavezzali insiste sul dietro le quinte dei romanzi di Carofiglio, come nascono i personaggi, la trama, che cosa è più importante?

“Mi piace l’idea che i personaggi si evolvano – dice Carofiglio – . Ma per me i personaggi si raccontano bene se ci sono storie solide, quindi le due cose vanno insieme. Quando comincio a scrivere un libro ho in mente varie cose, chi sono i protagonisti principali, qual è la situazione, ma soprattutto so come finisce. Sapere come va a finire è un buon aiuto per fare storie compatte, che non si perdano in binari morti per poi tornare sul binario principale. Mi piacciono le divagazioni se sono momenti narrativi che dicono qualcosa sui personaggi, o indirettamente sulla storia. Non mi piacciono i fili appesi che spesso dipendono dal fatto che chi scrive non sa come va a finire. Scrivere un romanzo è come ha detto qualcuno di cui non ricordo il nome, è come fare un viaggio da Londra ad Edimburgo: sai da dove parti, sai dove arriverai. Questo è abbastanza aderente alla mia idea di come si scrive un romanzo”.

Cavezzali introduce un tema caro a Gianrico Carofiglio: quello della scelta delle parole. “Credo – spiega lo scrittore – di essermi posto il problema quando facevo il magistrato. Allora forse non era ancora consapevole, ma c’era la riflessione che nell’ambito di certi lavoro l’uso di certi frasari, di certa terminologia risponde ad una serie di ragioni nessuna delle quali positiva. Ad esempio: il gergo dei giuristi dipende da tre ovvi motivi, in ordine di gravità: la pigrizia del gergo, quando entri in una corporazione, per essere riconosciuto, impari una sorta di lingua straniera che poco ha a che fare con l’italiano, la seconda ragione è narcisismo, la terza è l’esercizio del potere. Ho cercato già allora di provare di essere più chiaro, perché mi sembrava fosse un dovere morale. Quando parli davanti ad una Corte d’Assise che comprende anche i giudici popolari dovresti, dico dovresti perché non sempre accade, essere comprensibile. Poi è stato naturale scrivendo che la cosa si evolvesse. Credo che la consapevolezza del linguaggio sia una questione di igiene morale ed intellettuale. Il nostro pensiero si invera, esiste con le parole che usiamo per dirlo. E’ bene quindi che le nostre parole siano precise, senza trucchi, cosa che purtroppo nella scrittura sono molto frequenti”.

L’incontro sta per finire. La penultima domanda riguarda l’ingresso di Carofiglio nel mondo televisivo con un programma, sottolinea Cavezzali, “che riporta il dibattito civile in televisione, una cosa che sembrava purtroppo dimenticata”. “Questa – esordisce lo scrittore – è una storia per me interessante. Intanto ci dice del degrado di cui un pezzo della cultura di questo Paese è caduto, un degrado tale che un’idea semplice come quella di questo programma è diventata oggetto di discussioni ed elogi. Però da un altro punto di vista ci dice che alcuni antidoti alle patologie della cultura del dibattito non siano così difficili, inafferrabili. Quello che facciamo con questo programma è dire l’ovvio: che il dissenso è una ricchezza per le società evolute. Che il conflitto è una cosa inevitabile e positiva e che ci sono modi diversi per praticare il conflitto: alcuni lo rendono una forza proficua, altri lo rendono una forza malefica. Il fatto che lo renda una cosa positiva è che ci sono regole che chiariscano che un conto è il merito del conflitto, un conto il metodo. Una cosa banale, insomma. In questo programma noi individuiamo alcuni temi di dissenso forte poi vengono introdotti due ospiti che sostengono due tesi distanti e prima di cominciare il dibattito si dicono le regole. Tre regole, per la precisione, quelle più ovvie per me. La prima: vietato l’attacco alla persona. Secondo: divieto di manipolazione. Poi l’onere della prova: se fai un’affermazione devi fornire prove a sostegno, soprattutto se la spari grossa”.

Infine l’ultima domanda prima del firma copie: chi sarà il protagonista del prossimo romanzo di Carofiglio? “Non lo so proprio” ammette lo scrittore che annuncia però che scriverà un piccolo libro con la figlia nato da un podcast.

“Un libro – anticipa – che ha come sottotitolo: manuale di conversazione per generazioni incompatibili. L’idea è ancora una volta di prendere alcuni temi, anche in questo caso di forte dissenso fra generazioni diverse, il cambiamento climatico ad esempio, e provare a vedere se riusciamo a parlarne, nel podcast ci siamo riusciti, stupendoci noi stessi”.

Carofiglio

Più informazioni su