Ravenna Festival. Tre serate per “Harmograph” di Matteo Scaioli: intervista all’artista

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Nell’ambito della rassegna “Le 100 Percussioni” di Ravenna Festival, l’artista romagnolo Matteo Scaioli, a partire da questa sera (venerdì 7 giugno 2019) porterà in scena, al Refettorio del Museo Nazionale di Ravenna “Harmograph”: tre serate in successione dedicate rispettivamente ai compositori Igor Stravinskij, Egisto Macchi e Giusto Pio. Tre figure umane e musicali che, per motivi differenti, hanno contribuito ad ispirare profondamente il poliedrico musicista ravennate.

“Harmograph” vedrà Scaioli impegnato come entità dietro le sue macchine, dal momento che sul palco saranno presenti anche strumenti che lo stesso artista ha costruito negli ultimi anni quando, Matteo, ha sentito l’esigenza di proseguire il proprio percorso artistico e musicale passando attraverso la creazione degli strumenti con i quali sprigionare le vibrazioni e i suoni ricercati dentro di sé per esprimersi col cuore ed interfacciarsi con il mondo attuale. Pensiamo ad esempio al Totem di gong balinesi, composto di bambù e scatole di legno, e quell’Harmograph che ha tenuto a battesimo il progetto: un gong meccanico realizzato con il fido e stretto collaboratore Gil. Pa, anch’egli personaggio tutto da scoprire nel corso dell’intervista. Le tre serate intrecciano suggestioni biografiche e attenzione al suono, in particolare al rapporto tra voce e percussioni. L’arte proposta da Matteo in “Harmograph” è un ‘micidiale’ mix tra vecchio e nuovo che genera una proposta genuina, molto rara e particolare al giorno d’oggi, in grado di far scaturire potenti riflessioni e forti emozioni nell’ascoltatore, invitandolo alla scoperta della propria anima e dei suoni che gli appartengono. “La chiusura di un cerchio nei miei 50 anni d’età”, come l’ha definita Matteo nel corso della nostra chiacchierata.

La serata dedicata a Stravinskij, uno dei musicisti che più ha ispirato il nostro sin dal folgorante incontro con la seminale e monumentale “Sagra della Primavera” diretta da Pierre Boulez proprio al Festival nel 1993, vedrà anche la presenza della macchina OZ/01, costruzione elettromeccanica capace di produrre un suono magico, fiabesco (anche per questo il riferimento al celebre mago di Oz). Per tutte e tre le serate in programma (7-9 giugno 2019) Scaioli porterà in scena anche Matrix, un nastro magnetico che racconta i compositori per suoni e voci.


L’INTERVISTA


Matteo, innanzitutto, presentiamo ai lettori il progetto Harmograph che si inserisce nella rassegna “Le 100 Percussioni di Ravenna Festival”.

“Harmograph è un progetto che racchiude al suo interno l’evoluzione di quello che ho fatto negli anni. Sono partito come batterista, dopodiché sono diventato percussionista sino a studiare le tabla, strumento indiano. Quest’ultimo mi ha colpito molto rispetto alla batteria per via del suo suono melodico e perché è possibile imparare a suonarla con un linguaggio onomatopeico. Anche i ritmi e i tamburi giapponesi mi hanno attratto molto. Questi non sono virtuosi e conta la precisione del colpo, riuscendo a creare qualcosa di potente e ipnotico. La melodia mi ha sempre attratto molto, penso a quando suonavo le tabla e mi cantavo in testa una melodia per tenere il tempo”.

In che modo sarà esplorato il rapporto tra percussioni e voce?

“Non uso computer, sono tutti suoni creati al momento con le macchine che ho con me. Non sono presenti tanti accordi e melodie, ma al contrario utilizzerò molto la voce e grammofoni preparati. Si tratta di un concerto non proprio facile per quanto concerne l’approccio”.

Nelle tre serate in programma tributerai rispettivamente tre compositori che ti hanno influenzato molto: il monumentale Igor Stravinskij e gli italiani Egisto Macchi e Giusto Pio. In che modo hanno influito sulla tua arte e cosa hanno significato per te umanamente parlando?

“Stravinskij ha influito a livello dell’esecuzione del ritmo. La prima volta che ascoltai la “Sagra della Primavera,” diretta da Pierre Boulez nel 1993 a Ravenna Festival, ormai mi veniva un infarto. La London Symphony contribuì e non poco alla potenza dell’evento. All’epoca avevo una grancassa da banda e comprai il vinile di Claudio Abbado, che dirigeva la suddetta orchestra. Nel mio studio, mentre lo ascoltavo, cercavo di andare dietro all’orchestra, di seguire le parti ritmiche della Sagra. Da quel momento (avevo 23/24 anni) ho approfondito per anni la figura di Stravinskij. E’ stato uno dei primi compositori contemporanei ad impiegare in modo differente rispetto agli altri le percussioni. Nella Sagra della Primavera ci sono le basi di molta musica moderna, penso alla techno ad esempio. Per quanto concerne Egisto Macchi, mi ha colpito molto un suo disco in particolare e la sperimentazione di cui si è fatto portavoce. La serata in tributo a Giusto Pio è stata definita di “decompressione” e userò molto la voce. Un disco del ‘900 che uso percussivamente. I vinili francesi dell’epoca pesavano quasi 500 grammi ed erano il doppio di quelli così detti normali. Provare a colpirlo con un microfono davanti ha prodotto dei suoni che mi hanno colpito tantissimo e da lì ho proseguito. Questo omaggio che ho tributato ai tre compositori l’ho fatto con grande rispetto nei loro confronti e con il cuore. Concerti impegnativi come Harmograph, necessitano di molta energia e questa non può scaturire da me se facessi cose che mi racconto e basta”.

Un aspetto che mi colpisce molto della tua arte, è che utilizzi strumenti architettati e assemblati da te. Ad esempio, in occasione di Harmograph, impiegherai OZ/01, una macchina in grado di produrre suoni del tutto particolari. Queste geniali intuizioni da che cosa hanno avuto origine a tuo giudizio?

“E’ un cerchio che si chiude nei miei 50 anni. Partendo dalla percussione, ho intrapreso un viaggio nel quale ho impiegato anche moderni sintetizzatori e poi, alla fine, ho sentito il bisogno di tornare indietro, di recuperare le cose primordiali e ricercare il suono che è dentro la mia anima. Devi essere tu che trovi uno strumento per tirare fuori qualcosa che è dentro di te ed è Tua. L’Harmograph è un grande gong meccanico mentre l’OZ/01 lo presento a Ravenna Festival. Ho impiegato più di un anno per assemblare la prima delle due macchine e mi permette di ottenere suoni “Kubrickiani” attraverso l’utilizzo di leve particolari. In questo momento della mia esistenza, sento il bisogno di avere i miei strumenti per esprimere ciò che sento dentro e che sta succedendo nel mondo”.

Le macchine che hai creato sono state possibili grazie all’aiuto di una persona speciale. Ce ne vuoi parlare?

“Sì, le abili mani di Gil. Pa sono state fondamentali. E’ un personaggio che non molla mai, un grandissimo. L’ho conosciuto acquistando i grammofoni da lui e, nel tempo, è nato un rapporto, una vera e propria alchimia. Inizialmente magari non capiva cosa gli stessi chiedendo, ma ha iniziato a ricercare per capire e ha trovato il modo di interpretare le mie richieste per ottenere i suoni che ho in mente. Gil. Pa assimila ciò che gli dico e poi lo tira fuori. L’OZ-01 l’ho pensata io ad esempio, ma siamo partiti da dei semplici ferri per arrivare alla macchina attuale. Gil. Pa con una pinzetta e un cacciavite ti costruisce il mondo. Quando queste persone non ci saranno più, sarà un grosso problema”.

Con il Dj-set la “Macchina Parlante” hai letteralmente stregato un guru del calibro di Giorgio Moroder. Ce ne vuoi parlare?

“Faccio un dj-set con grammofoni con le lacche degli anni ’30, ’40 e ’50. Moroder mi ha premiato per l’innovazione, ma se ci pensi al giorno d’oggi molte persone non sanno nemmeno cosa sia un grammofono. In un certo senso, mi vedo come una sorta di Dottor Who, che arriva da un’altra dimensione dove ha trovato queste macchine e questi dischi che diventano nuove: vinili di Duke Ellington, di Benny Goodman, per molti giovani questi suoni sono fantascienza e il tutto diventa futurismo. Le macchine che assemblo mi permettono di creare suggestioni e di ottenere la potenza che comporta la ricerca in sé stessi, della propria anima e del proprio io”.

Mi ha colpito molto la tua affermazione in merito all’anima che posseggono oggetti musicali antichi o finiti in disuso. La commistione tra essi e strumenti elettronici all’avanguardia rappresentano un incontro tra vecchio e nuovo che porta alla creazione più genuina e autentica?

“E’ proprio così. Bisogna sempre guardare un po’ indietro per creare il nuovo. Se viene a mancare l’anima, entriamo sempre più dentro ad un ‘matrix’ assurdo fatto di niente dove tutto è arido. Attraverso le mie macchine mi pongo l’obiettivo di scuotere le persone: con un oggetto che può sembrare una semplice asse di lego, posso invece arrivare dentro alle persone facendo uscire delle cose da loro”.

Sorprendendo continuamente te stesso generi nuove dimensioni dalle quali trai nuove ispirazioni e il processo sembra essere pressoché infinito. Sbaglio? “Affatto. Hai colto un punto molto importante. La vita per me è la ricerca del suono per trovare la pace interiore, dentro di me. Sono una persona molto tranquilla e serena, non fraintendermi, ma continuo a lavorare per il grande giorno del ‘passaggio’ in modo da poterlo affrontare lasciandomi andare, non continuando a combattere contro di esso”.

A cura di Alessandro Bucci

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