Consulta Provinciale Antifascista di Ravenna: Perchè questa riforma della costituzione non ci piace

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Premessa – Assunto che “l’antifascismo non può ridursi alla sola ripulsa del fascismo ma impone una critica puntuale sullo stato della democrazia e sui guasti della società” e che “la libertà non è una conquista definitiva, così come la democrazia si costruisce e si deve salvare ogni giorno”, con questo documento che riprende ed integra autorevoli giudizi di molti, noti costituzionalisti italiani, la Consulta vuole offrire una argomentata base per la riflessione dei cittadini ravennati in previsione del prossimo referendum sulla legge costituzionale di riforma della Costituzione recentemente approvata dal Parlamento italiano a maggioranza. 

 

Ne segue che il “referendum sospensivo” sarà o meno confermativo delle modifiche apportate che riguardano ben un terzo dell’articolato e sarà valevole con la sola maggioranza dei voti validi, senza quorum. E’ noto che la prevalente interpretazione della norma costituzionale per la revisione della Costituzione (art. 138) punta ad assicurare che le modifiche siano espresse da un’ampia convergenza e condivisione dei partiti e da un’efficace e pubblica discussione poiché si tratta della legge fondamentale che esprime le basi comuni della convivenza civile, politica, socio-economica e giuridica, la quale deve essere un patrimonio comune che può essere oggetto di modifiche ma che, entro determinati limiti, provengano dall’iniziativa del Parlamento e non del Governo (come invece è accaduto questa volta). Poiché si tratta di un prodotto che deve durare nel tempo, anche con maggioranze di governo diverse ed antagoniste, non deve essere il frutto della politica contingente.

 

In verità in Parlamento le convergenze tra i gruppi parlamentari non sono state sufficienti in quanto queste revisioni sono soprattutto espressione di maggioranze, per altro variabili (in più casi ricorrendo al voto di fiducia), che hanno pure usato strumenti idonei per ridurre tout court ed escludere contributi di merito e pure singoli parlamentari dissenzienti dalla Commissione Affari Costituzionali. Si tratta di una rilevante revisione costituzionale operata purtroppo da Camere di fatto delegittimate in ragione della sentenza della Corte Costituzionale (n.1/2014) che ha dichiarato incostituzionale la legge n.270/2005 (il cosiddetto “Porcellum”) per la quale erano state elette e che postulava quindi una loro astensione da questi atti. Alcuni interventi per velocizzare l’iter d’approvazione delle leggi si potevano realizzare modificando i regolamenti delle due Camere, il numero dei parlamentari poteva essere ridotto con una norma costituzionale ad hoc e così alcune abrogazioni (Provincie, CNEL) allo scopo di rendere più efficiente ed economico il sistema.

 

S’è voluto invece realizzare qualcosa di ben più vasto e la modifica della Costituzione che ne è derivata, nonché il referendum che ne è il corollario, sono il frutto di una visione accentratrice, trasversale che rafforza, nel nome dell’efficienza, l’esecutivo e depotenzia i contrappesi costituzionali perché ne risultano un Senato indebolito, una carenza di garanzia per le opposizioni, un Presidente della Repubblica probabile espressione della sola maggioranza parlamentare di governo, una netta riduzione dell’autonomia delle Regioni a Statuto ordinario, una Corte Costituzionale a rischio di un calo d’imparzialità perché squilibrata, strumenti di partecipazione democratica compressi, ecc. Sono cioè modifiche che oltre ad essere disomogenee, incidono sul rispetto delle scelte dell’elettore, anche in ragione del combinato disposto prefigurato dalla orribile legge elettorale “Italicum” che con i suoi meccanismi maggioritari, inaccettabili, comporta una “democrazia dell’investitura rafforzata” (4), con un dominio della minoranza più forte e del suo capo, una rappresentanza politica monca e svuotata, un colpo alla sovranità popolare e un rischio possibile d’involuzione autoritaria futura del sistema politico. L’obbiettivo politico che si è perseguito, cioè una riduzione dei costi della politica e l’efficienza dell’ordinamento, a questo prezzo risulta realmente caro per la democrazia.

 

Nel merito

Dall’articolato sottoposto a referendum emerge che il necessario superamento del bicameralismo perfetto (che però non è la fonte di tutti i guai istituzionali e di governo) è stato perseguito in modo purtroppo incoerente ed errato. Le funzioni del Senato non sono quelle di un organo di pieno controllo e di garanzia bensì appaiono confuse e disomogenee e non sono un contrappeso rispetto all’involuzione maggioritaria. Si è ridotto il numero dei membri – il che non guasta – e si è indebolita l’istituzione. Viene definito “organo rappresentante delle istituzioni territoriali” ma non essendo l’Italia uno Stato federale – né questa riforma lo proclama- si tratta di una affermazione fine a se stessa in quanto è privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo, il che dimostra il carattere non politico della rappresentanza. Infatti questo Senato non ha poteri effettivi sull’approvazione di molte leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che lo facciano uno strumento efficace della concertazione Stato-Regioni. Tra l’altro interviene su sedici materie. In esso non si esprimono le Regioni in quanto tali ma più rappresentanze locali ed onorifiche.

 

In questo modello il potere dei cittadini s’esaurisce nella scelta dei capi di Governo che poi si relazionano direttamente via etere con le masse-individuo senza intralci dei partiti o di altri. Così i cittadini cessano d’essere protagonisti e diventano spettatori di scelte che altri faranno in loro nome. 3 Infatti i senatori sono cento dei quali settantaquattro sono nominati dai Consigli Regionali in conformità al voto degli elettori per i Consigli Regionali d’appartenenza. Si tratta di alcuni consiglieri per ogni Regione eletti anche come senatori che sommerebbero i due ruoli con l’aggiunta dell’immunità solo per essi (derivante dal ruolo di senatore) che poi in Senato voterebbero in base a proprie scelte personali. Ventuno senatori saranno poi eletti sempre dai Consigli Regionali (di fatto uno per ambito regionale) fra tutti i sindaci d’ogni regione e cinque saranno nominati dal Presidente della Repubblica in ragione dei loro meriti di cittadinanza (non si capisce perché questi debbano essere membri della Camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali). In breve ci sono quindi cinque nomine “sovrane” del Presidente della Repubblica; ventuno nomine di secondo grado; settantaquattro ad elezione di primo/secondo grado. Un mix indefinibile che rende il Senato non un vero organo di rappresentanza della sovranità popolare, formato da personale politico part-time, non in grado di essere contrappeso al Governo, né d’essere una vera Camera delle istituzioni territoriali.

 

Altro discutibile effetto di questa riforma del bicameralismo è che si prevedono più procedimenti legislativi differenti in rapporto al ruolo attribuito al Senato: leggi bicamerali (di natura costituzionale ed alcune, per materia, di natura ordinaria), leggi monocamerali però con possibilità emendativa del Senato ma diverse fra loro a seconda che gli emendamenti possano essere respinti dalla Camera con maggioranza semplice o assoluta e comunque con voto finale, decisivo, della Camera. Al Senato sono poi attribuite alcune funzioni legate all’integrazione comunitaria: il concorso nel raccordo fra Stato – enti territoriali – U.E.; la verifica dell’impatto territoriale delle politiche comunitarie e la partecipazione alla realizzazione degli atti normativi e delle politiche dell’U.E.

 

Il Senato infine non esprime la fiducia al Governo, né l’indirizzo politico ed un vero controllo sul suo operato, né la funzione legislativa (salvo le eccezioni menzionate), né vota lo stato di guerra e neppure le leggi di ratifica dei trattati internazionali (eccetto quelle per l’U.E.). Per quanto riguarda il potere legislativo è quasi completamente assegnato alla Camera dei Deputati però con quelle complesse procedure sopra evidenziate per cui è improprio parlare di taglio del bicameralismo. E’ istituita inoltre una vera corsia preferenziale per i disegni di legge governativi (con una conseguente limitazione della decretazione d’urgenza) che però accentua il potere del Governo rendendolo di fatto controllore dei lavori parlamentari con la possibilità di ricorrere alla classificazione di “disegno di legge essenziale per il programma del Governo” (salvo eccezioni) e quindi prioritario. Il Governo, indipendentemente dal colore politico, viene posto quale organo che dirige il Parlamento nel nome della governabilità e della efficienza, in stretta armonia con il pessimo sistema elettorale dell’ “Italicum” che gli attribuisce – col metodo del premio elettorale – una maggioranza rilevante e composta da molti “nominati” anche perché non c’è obbligo delle elezioni primarie per i partiti nella formazione delle liste.

 

“Italicum” che comporta pure la reintroduzione delle preferenze alla faccia del referendum che le abrogò proprio per abbattere il voto di scambio. La dissonanza con parametri costituzionali della sovranità popolare e del bilanciamento dei poteri propri di una democrazia sostanziale è piuttosto chiara. Infatti il ruolo del Parlamento viene impoverito anche nella funzione di indirizzo politico. Tra l’altro con la moltiplicazione dei tipi di procedimenti legislativi sopra elencati si ha una distinzione, ritenuta dai citati costituzionalisti, incerta che potrà incrementare il contenzioso parlamentare, il rischio di 4 leggi incostituzionali per vizio di forma con ricadute negative proprio su quella semplificazione ed efficienza che si vuole introdurre. Per quanto concerne l’ assetto regionale non solo non è prevista una riorganizzazione territoriale più vasta delle Regioni in un’ottica federalista ma esso risulta molto indebolito. Infatti la suddivisione delle competenze legislative definita toglie alle Regioni (al di là degli intenti efficentisti) parecchi spazi di pertinenza legislativa trasformandole in organismi privi di reale autonomia, senza garantire i loro poteri sul piano finanziario e fiscale (ma non è così per quelle a Statuto speciale).

 

Risulta che materie come trasporto e navigazione, comunicazione, energia, promozione della concorrenza, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, disposizioni generali e comuni per la salute, tutela e sicurezza del lavoro, politiche sociali, istruzione e formazione professionale, sarebbero ricondotte all’esclusiva competenza statale. E’ introdotta anche la “clausola di supremazia statale” ai fini dell’unità giuridica ed economica e dell’interesse nazionale e quindi, su proposta del Governo forte della grande maggioranza alla Camera, la legge statale può intervenire direttamente in materia di competenza regionale. Il rischio, evidenziato dai molti costituzionalisti citati, è che si creerà un contenzioso nuovo di fronte alla Corte Costituzionale. Il fatto che le Regioni, come altre istituzioni, abbiano denotato disfunzioni di vario genere, sprechi ecc. è da imputare al protagonismo deteriore, alla disonestà e al malgoverno di una parte del personale politico ed amministrativo e all’andazzo generale che inquina la relazione pubblico-politica non all’istituzione in quanto tale.

 

Ciò significa che occorrono interventi di razionalizzazione, di selezione, controllo e di netta repressione dei fenomeni non di scardinamento dell’istituzione che è sempre stata definita essenziale per un corretto governo territoriale e per un più coinvolgente rapporto politica-cittadinanza. Sono abolite nel testo le Province che però continuano ad essere presenti, fino ad ora, nell’ordinamento giuridico laddove non ci sia la città metropolitana (prevista come organo di secondo grado). L’indebolimento delle Regioni evidenzia la centralizzazione ed il venire meno di un altro contrappeso costituzionale. Molti costituzionalisti (ibidem) hanno esplicitato che non s’è di fatto preso atto che il contenzioso tra Stato e Regioni che si vorrebbe giustamente ridurre non risiede nei criteri ripartitori delle competenze per materia bensì nella carenza di una coerente legislazione statale attuativa. Con questa riforma costituzionale non si creano poi strumenti efficaci di cooperazione e correttivi tra centro e periferia ma si rovescia l’impostazione del rafforzamento delle autonomie e s’è esclusa la scelta federale. Si considerino poi le elezioni del Presidente della Repubblica e della Corte Costituzionale. L’elezione del presidente avviene in seduta comune del Parlamento con la nota netta prevalenza dei deputati (che in virtù della legge elettorale “Italicum” saranno in larghissima parte di un solo partito) e con particolari maggioranze sancite proprio per l’elezione del Presidente che però dal settimo scrutinio sono ridotte ai tre quinti dei soli votanti. Ciò rende possibile che la maggioranza politica parlamentare al potere gestisca ed elegga da sola il Presidente della Repubblica, indebolendo la funzione super partes dell’istituto e quindi il suo ruolo di contrappeso sul piano 5 degli equilibri istituzionali.

 

Infine l’imparzialità della Corte Costituzionale che resta formata da quindici membri, cinque dei quali di nomina presidenziale, cinque nominati dalla magistratura e cinque nominati appunto da siffatto Parlamento (tre dalla Camera e due dal Senato corre un rischio simile a quello già indicato per il Presidente della Repubblica e pertanto di minore imparzialità. Una Corte che viene inserita nel vivo del dibattito parlamentare per la novità dell’introduzione del suo giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali. Per quanto attiene al ruolo delle opposizioni (che oltretutto per via della legge elettorale “Italicum” sarebbero ridimensionate) tutto è rinviato a proposito dell’approvazione di un loro Statuto di garanzia. Infine per quel che concerne la democrazia diretta è evidente che la partecipazione popolare è resa più difficile per la variabilità dei quorum richiesti per i referendum abrogativi, ma soprattutto per l’innalzamento da cinquanta a centocinquantamila del numero delle firme per una proposta di legge di iniziativa popolare e per il rinvio dell’adozione del referendum propositivo e d’indirizzo.

 

In sostanza Le positive norme introdotte riguardanti la limitazione del potere di decretare del Governo, la previsione di tempi sicuri per il voto della Camera sui progetti governativi d’indirizzo politico, la preventiva sottoposizione alla Corte Costituzionale del giudizio di costituzionalità per la leggi elettorali, la promessa – seppur generica – dell’introduzione del referendum propositivo, l’abolizione del CNEL, la cancellazione sia pur generica delle Provincie, l’intento di superare la doppia lettura parlamentare ed accorciare l’iter legislativo, ed infine la riduzione del numero complessivo dei parlamentari non cambiano le caratteristiche dell’impianto realizzato in questo Parlamento. In realtà si tratta di una ristrutturazione centralista, piramidale e squilibrata dell’ordinamento statale che produrrà effetti negativi – sopra indicati – dove il Parlamento perde il ruolo di centralità e le autonomie regionali sono assai ridimensionate; gli altri organi di contrappeso e controllo e gli istituti di democrazia diretta non sono rinforzati affatto, con chiari problemi di natura democratica, partecipativa e di funzionamento (sopra evidenziati) appesantiti dalla compresenza di una legge elettorale – “Italicum”- che comprime il pluralismo della rappresentanza e consegna il potere ad un solo partito ed al suo capo che sarà il capo del Governo.

 

Secondo noi tutto ciò va considerato attentamente da tutti i cittadini perché si tratta dell’ordinamento dello Stato che dovrà reggere la vita comune e la convivenza politica e civile dei prossimi decenni. Si tratta di norme che debbono garantire e regolare qualsiasi maggioranza e minoranza politica in ogni contingenza senza rischi di derive autoritarie, e soprattutto la democrazia – ovvero il governo del popolo – che già i padri costituenti ritennero debba esser partecipata. Ogni forzatura plebiscitaria, efficentista, economicista ed addirittura europeista va pertanto respinta a prescindere. I richiami all’efficientismo e all’europeismo non sono affatto un democratico contrappeso di rilevanza costituzionale, esprimono invece il far presto e bene quanto viene deciso a Bruxelles o dai mercati finanziari. L’idea che l’efficienza si realizzi con la mera velocizzazione dei processi decisionali è banale perché intanto va a scapito della qualità (ed in 6 questo senso la legislazione italiana registra diverse esperienze negative) ed anche della capacità di recepire le istanze più avanzate che si alzano nel merito dalla società. Capacità già limitata per la sclerosi delle rappresentanze politiche. Certi drammatici inviti, poi, ad approvare questa riforma a tutti i costi quasi che se non lo si facesse ci sarebbe il salto nel baratro, oppure perché nonostante i suoi evidenti limiti rappresenterebbe una positiva novità migliorativa dell’oggi, devono, a nostro avviso, restare inascoltati perché fuorvianti ed anche piuttosto superficiali ed in fin dei conti irrispettosi della libertà politica dei cittadini e della loro capacità di discernere nel merito.

 

Infatti questa riforma costituzionale è fatta male e deve essere chiaro che se sarà approvata avrà il più reale effetto a partire dalle prossime elezioni politiche (2018?) e quindi fino ad allora il numero dei parlamentari non cambierà e così pure il Senato e pertanto non ci saranno risparmi d’alcun genere. Se la riforma sarà respinta si potrà (sempre che lo vogliano davvero) ugualmente ridurre presto il numero dei parlamentari con una specifica norma costituzionale e velocizzare l’iter legislativo cambiando subito i regolamenti delle due Camere per poi riformare al meglio l’ordinamento, e quindi non così. Se invece si vuole arrivare a tutti i costi ad elezioni politiche anticipate, entra in ballo drasticamente la conferma o meno della pessima legge elettorale “Italicum” che è comunque sub iudice della Corte Costituzionale. Sono tutte soluzioni tecniche praticabili se sorrette da volontà politiche e pertanto non c’è alcun baratro. Sarebbe stato comunque più opportuno sul piano democratico dare possibilità al popolo sovrano di votare separatamente sui singoli temi contenuti nella riforma (cioè “spacchettare il referendum”) per permettergli di esprimersi liberamente su ogni argomento senza essere incapsulato in un voto unico – prendere o lasciare – voluto anche per fare prevalere ragioni esterne al merito. La principale di queste ragioni esterne è riassunta dal dichiarato intento politico di mantenere immodificabile la legge elettorale “Italicum”.

 

Ciò quindi non permette affatto di scindere la complessiva valutazione sulla riforma costituzionale da questa legge per le già indicate pessime ricadute del menzionato combinato disposto sulla sovranità popolare e sulla vita democratica nazionale. Il che aggrava il tutto. Il nostro invito agli elettori è quindi di non rinunciare agli attuali diritti e d’andare a votare riflettendo su tutto quanto è stato evidenziato, decidendo secondo coscienza, sapendo che la situazione ultimativa creata attorno a questo referendum non è stata prodotta per responsabilità degli elettori e che ci si deve pronunciare, considerando le possibili conseguenze, non su un’operazione di manutenzione costituzionale ma se il futuro degli Italiani sarà a democrazia partecipativa – come noi riteniamo debba essere – o meno.

 

La Consulta Provinciale Antifascista di Ravenna

La Consulta Provinciale Antifascista di Ravenna ha aderito ai Comitati per il No a questa riforma costituzionale

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