Raul Gardini. Era un raider, fu travolto da poteri più forti di lui. Ravenna vada oltre il rimpianto

Intervista allo storico Andrea Baravelli sulla vicenda e sulla figura di Raul Gardini in rapporto a Ravenna, a 25 anni dalla morte

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Sono trascorsi venticinque anni dalla morte di Raul Gardini, ma il mito di questo imprenditore che ha posto fine ai suoi giorni nello stesso giorno del patrono della sua città, il 23 luglio 1993, a Ravenna è ancora intatto. Per chi l’ha conosciuto ma anche per molti che hanno semplicemente seguito le sue vicende da lontano, Raul Gardini è stato un imprenditore di successo, pieno d’intuizioni, oltre che un personaggio che ha dato lustro alla città. 

In questi giorni in cui Ravenna si appresta a ricordare l’anniversario di quella morte tragica e per molti versi ancora piena di misteri, abbiamo cercato di rileggere la vicenda di Raul Gardini in una chiave un po’ diversa, non celebrativa, cercando di mettere in luce luci e ombre della sua figura, con le sue varie sfaccettature, con uno storico, il professor Andrea Baravelli.

Baravelli e il collega Alessandro Luparini, fra l’altro, hanno ricostruito in un libro sull’esperienza di sindaco di Pier Paolo D’Attorre negli anni immediatamente successivi alla morte di Gardini e al crack del Gruppo Ferruzzi. Incontriamo il professor Baravelli in un afoso pomeriggio nel bar pasticceria che si affaccia sui portici di Piazza San Francesco. Proprio a due passi da qui, nella basilica che dà il nome alla piazza, 25 anni fa si svolsero i funerali di Raul Gardini. Allora la piazza e il portico erano gremiti di persone: accorsero in migliaia per l’ultimo saluto a Raul.

 

“Quando si parla di Raul Gardini – esordisce il professor Baravelli – si finisce sempre per oscillare tra un mito iperpositivo e la decontestualizzazione, come se tutto si riducesse a Ravenna, come se non esistesse altro fuori dai nostri confini. In realtà la storia di quegli anni ci racconta qualcosa di diverso anche su Ravenna”.

Proviamo a raccontarla allora questa storia.

“Gardini fu un raider (lo chiamavano il Corsaro, ndr), una persona che rischiò tantissimo sapendo che si stava mettendo contro il sistema. Lui ha avuto un grande successo, che alla fine ha pagato caro. Perché, come per tutti i raider, o la va o la spacca. Gardini, a un certo punto, si trovò con un’esposizione spaventosa nei confronti delle banche e chiese alla politica di dargli una mano per risolvere il problema”.

Una delle tesi che hanno contribuito alla costruzione del mito positivo di Gardini è che lui sia stato fagocitato dal sistema dei partiti, cioè che sia stato una vittima di questo sistema.

“Io non la vedo così: dal momento che decide di addentrarsi in certe dinamiche di potere, Gardini non può non essere consapevole delle regole del gioco. Gardini non è stato un imprenditore sconfitto dalla politica, ma un raider che, come ho detto, ha rischiato tantissimo consapevole di quelle che erano le regole in quel momento. Non riesce però a rapportarsi ad esse, tanto che ad un certo punto chiede alla politica di salvarlo. Ma la politica nel 1991 e 1992 è una politica ormai debole, che non può proteggerlo come avrebbe potuto fare in un altro momento, o non può piegare le regole economiche come aveva fatto per altri solo pochi anni prima. Qui sta forse l’errore di prospettiva finale di Gardini. Negli anni Novanta si consuma la fase finale della destrutturazione dell’autorevolezza dei partiti che continuano ancora ad esistere come forma, ad andare avanti per un decennio, ma ormai la credibilità l’hanno persa”.

Gardini non è solo rimasto nel cuore di molti ravennati, ci sono personaggi importanti della vita economica e culturale italiana che hanno avuto un rapporto importante di stima e affetto con lui.

“Gardini è stata una persona indubbiamente di grande fascino, un imprenditore con molte qualità. Aveva un progetto industriale intelligente ma che poteva avverarsi solo se si avverava anche il progetto finanziario. Gardini, secondo me, è uno dei primi imprenditori che capisce l’importanza della comunicazione. Prima di lui c’è solo Berlusconi in Italia che ha la capacità di legare la sua vita privata alla costruzione del personaggio. Con una differenza: Berlusconi riesce ad ottenere quello di cui ha bisogno in un momento in cui la politica può ancora difenderlo, ma soprattutto ha ben chiaro il fatto che un imprenditore moderno, se non ha una grande tradizione di famiglia alle spalle, deve essere un personaggio pubblico. Gardini questo lo ha capito. Io vedo nell’ostentazione delle sue origini, nell’aver portato a Ravenna e in altre città della Romagna la redazione del Messaggero, nel suo impegno per fare tornare grande il volley ravennate, la costruzione della sua diversità. C’è una logica di comunicazione interna, tutta proiettata su Ravenna. Ricordo in quegli anni la forte presenza e anche l’invadenza, sul piano locale, di Gardini, del suo Gruppo e degli industriali, che in quel momento si raccontavano anche come potere alternativo al potere politico della città. C’è a Ravenna un imprenditore con idee originali, che non si mischia agli altri imprenditori, ha il suo elicottero privato che lo porta su e giù… Questa la narrazione. Sì, secondo me c’è una scelta comunicativa molto moderna da parte di Gardini da questo punto di vista”.

Se lei come storico volesse scrivere un libro su Raul Gardini, da dove partirebbe?

“Partirei proprio da qui, da Ravenna e dal mito di Gardini. A me Gardini interessa ancor più che come imprenditore, per questa sua capacità di creare un mito che resiste nel tempo, il mito di un personaggio che in un territorio come quello ravennate finisce per diventare il genius loci”.

Un mito che, dicevamo, è ancora vivissimo.

“Certo. Se uno pensa ad un ravennate famoso dice Gardini, non ti viene in mente nessun altro. A me piacerebbe indagare i meccanismi della costruzione di quel mito, quando Gardini era ancora in vita e poi la sua trasformazione nel corso degli anni. Il mito di Gardini è qualcosa di molto ravennate, ma da Ravenna non c’è l’eco. Fuori dalla nostra percezione, Gardini è uno dei protagonisti di Mani pulite. Più famoso di Cusani, diverso da Chiesa, ma viene percepito come un protagonista della vicenda di Mani pulite. Punto. Non è altra cosa. Questo dovrebbe farci pensare”.

Continuando in questa chiave di lettura per molti ravennati l’era Gardini ha rappresentato il massimo, il punto più alto per la nostra città. Ravenna era capitale e adesso è tornata palude.

“No, no, non è così. È la nostra percezione di ravennati di essere stati una capitale in quel momento. La favola di Gardini è una favola che nasce nella prima metà degli anni Ottanta e finisce nei primi anni Novanta. Questi sono anche gli anni di massimo splendore della tv commerciale. Sono gli anni di Dallas se vogliamo prendere un archetipo di quella tv. Il momento d’oro della parabola di Raul Gardini coincide con il periodo più prospero degli anni Ottanta, un momento in cui il nostro Paese si illude di aver messo da parte gli anni Settanta e la crisi. Ricorda quando Craxi diceva che avevamo superato l’Inghilterra come potenza industriale? Dal 1984 al 1989 l’Italia è un paese che sembra lanciatissimo. A questo si aggiunge la presenza di Gardini a Ravenna: l’idea che i ravennati si fanno è quella di Raul Gardini portatore di grande ricchezza”.

Invece, secondo lei non è così.

“Anzi, nel momento cui tutto è finito ha tolto molto e quando finisce il sogno ti senti perduto ancora di più. A questo proposito ricordo le parole molto dure dell’allora sindaco Pier Paolo D’Attorre, parole che furono accolte malissimo da gran parte dei ravennati”.

Parole che molti non hanno ancora digerito.

“D’Attorre scrive in quelle settimane in maniera molto lucida relativamente al fatto che alla comunità ravennate serve una sferzata di orgoglio, serve qualcuno che dica: ce la faremo egualmente e non finisce nulla”.

In particolare la famosa frase di D’Attorre “Ravenna non è in ginocchio” venne letta come l’incapacità di riconoscere la gravità del momento, fu interpretata quasi come un “atto di lesa maestà”.

“Invece Pier Paolo D’Attorre aveva perfettamente ragione. Da grande storico economico qual era, avendo svolto studi approfonditi sul territorio, sapeva benissimo che il tessuto economico ravennate era solo in minima parte Gardini. All’epoca c’era un sistema cooperativo forte, c’era ancora un’industria chimica che reggeva. C’erano insomma le possibilità di poter superare quel momento di difficoltà provocato dal crollo del Gruppo Ferruzzi. Però l’esortazione di D’Attorre a reagire fu sentita come uno schiaffo, fu vissuta come l’incapacità di provare empatia nei confronti di un dolore terrificante che l’intera comunità ravennate stava provando. Un conto però è provare empatia per l’uomo. Un conto inquadrare il personaggio storicamente per quello che è stato e ha fatto”.

 

Foto Corriere della Sera

 

Approfondiamo questo aspetto.

“Ho letto un libro di Claudio Martelli, molto bello, molto franco. Martelli scrive che il progetto di Gardini era in realtà un ottimo progetto. L’idea di una Montedison capace di sviluppare un percorso di chimica di eccellenza mettendo in un angolo l’Eni che aveva un altro core-business, l’idea di strapparne il 40 per cento per riportarlo all’interno della galassia Montedison era un ottimo progetto. Dopodiché è lo stesso Martelli che dice che Gardini non fa i conti con il fatto che l’Eni è un’impresa di Stato ed ha la politica pronta a difenderla con le unghie e con i denti. Gardini non poteva non esserne consapevole. Il grande imprenditore si deve rendere conto che non sta dando l’assalto alla borsa di Chicago. Quante volte Gardini dice: abbiamo conquistato la borsa di Chicago. Un conto è fare la grande impresa in un mercato come quello americano. Un’altra cosa è cercare di fare lo stesso in una situazione come quella italiana, che ha ben altre regole. La mia sensazione è che la debolezza imprenditoriale di Gardini sia stata quella di sottovalutare la forza di interdizione che il sistema economico e politico che faceva riferimento all’industria di Stato aveva la capacità ancora di produrre. E dal momento che Gardini non riesce a raggiungere il suo scopo, arriva la tragedia. Lui deve uscire da una situazione in cui non riesce a rastrellare quel 40 per cento, in cui non riesce a diventare la chimica sono io, come disse”.

Sulla vicenda Enimont s’innesca quella che è stata ribattezzata la madre di tutte le tangenti.

“Che negli anni Ottanta l’utilizzo delle tangenti fosse generalizzato questo lo sappiamo, non è solo senso comune. Una cosa però è la tangente generalizzata che opera su settori privati, una cosa è la tangente che riguarda l’industria di Stato. In quest’ultimo caso non sono soltanto soldi che devi pagare ai politici, ma la tangente è anche legata alla funzionalità che quel settore ha ai fini della politica. Mi spiego: Gardini non avrebbe mai potuto pensare in quelle condizioni di potersi portare via un pezzo dell’economia di Stato solo pagando. Quella parte dell’economia di Stato era anche potere”.

Gardini, Cuccia, Mediobanca.

“Quando si parla del rapporto di Gardini con Mediobanca quest’ultima sembra sempre un po’ come la Spectre, ma in realtà Mediobanca è il capitalismo italiano. Mediobanca è stata dalla metà degli anni Cinquanta fino al Duemila il simbolo del capitalismo italiano che è stato o un capitalismo di Stato, fintanto che è esistita l’IRI, oppure un capitalismo familiare, con le grandi famiglie che usavano Mediobanca come uno strumento di controllo del mercato finanziario. Alla fine Gardini viene travolto da quelli che sono poteri più forti di lui, perché Mediobanca e Cuccia hanno cinquant’anni di potere relazionale sulle spalle”.

Mistero è il termine più usato, per non dire più abusato quando si parla della tragica vicenda di Raul Gardini. Il mistero, è tesi piuttosto diffusa, avvolge il suo suicidio come quelli di Cagliari e di Sergio Castellari.

“Come storico io mi occupo soprattutto degli anni Settanta e di terrorismo e anche quando si affrontano quelle pagine della storia del nostro Paese si è costruito un genere complottistico, per cui tutto ciò che non rientra in uno schema, tutti i buchi di una ricostruzione vengono utilizzati come prova di una manchevolezza e vengono riorganizzati in una ricostruzione appunto di tipo complottistico. Questo è avvenuto, secondo me, anche nella vicenda di Gardini. Su questo versante io sono sempre molto scettico: mi devi dimostrare, atti giudiziari alla mano, che le inchieste sono state fatte con la volontà di non arrivare alla verità. In particolare sul fatto che Gardini possa essersi suicidato oppure no: lui era in attesa di alcuni documenti che, a suo parere, avrebbero dovuto in un qualche modo giustificare la sua condotta. Il giorno dopo avrebbe dovuto recarsi da Di Pietro. Quei documenti non gli arrivano: non mi sembra così improbabile che l’eventualità di presentarsi a Di Pietro senza quei documenti e di uscire dagli uffici della Procura di Milano in manette possa avere indotto un uomo come Gardini a quella tragica decisione. Io sono convinto che adesso, dopo 15, 20 anni di devastazione dell’immagine pubblica, se un politico o un manager venisse portato via in manette dall’ufficio di un magistrato non si suiciderebbe, almeno questa è la mia convinzione. All’epoca invece era un brutto colpo da un punto di vista psicologico per uno come Gardini, cioè un imprenditore che si è costruito un’immagine da vincente. Comprendo benissimo che chi gli era vicino faccia fatica a credere al suo suicidio, ma a me non sembra così improbabile”.

Torniamo a Ravenna: cos’hanno veramente rappresentato gli anni di Gardini per la nostra città? E che cosa è rimasto?

“Secondo me hanno rappresentato un momento di grande euforia collettiva: è stato un po’ come vincere i mondiali di calcio. Ravenna in realtà non è cambiata rispetto a com’era in quegli anni. La presenza di Gardini e la sua morte hanno funzionato dagli anni Novanta in poi come una sorta di giustificazione per un’inerzia che è tale da sempre. L’imprenditoria privata c’è a Ravenna: si vede? Ha mai avuto un ruolo pubblico, è stata in grado di uscire fuori dal piccolo recinto della provincia? Il periodo d’oro di Gardini è stata una parentesi e poi dopo ha funzionato in negativo. Il ricordo nostalgico di Gardini, di quegli anni di grandeur, alla fine è stato un male per Ravenna perché ha giustificato il fatto che si può rimanere così, nell’aurea mediocritas. Uscire dalla mediocrità significa mettersi di fronte a rischi che non vuoi correre, oppure esci dai confini territoriali come ha fatto la Cmc. Se vuoi essere un grande player devi trasformarti in un grosso soggetto globale. Ma siamo un territorio che non ha una grande tradizione industriale. Cosa è rimasto di Gardini a Ravenna? Del rimpianto, certo, ma dopo 25 anni sarebbe il caso di andare oltre questo rimpianto”.

 

A cura di Roberta Emiliani

 

Il professor Andrea Baravelli

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