Cultura. Alfio Longo e quel sottile filo rosso che lega Ravenna, Dante e i suoi 1.350 titoli

Intervista allo storico editore ravennate che ci parla di sé, del poeta, della città e della politica - E invita a fare squadra per le celebrazioni di Dante 2021: "credo sia giusto che i ravennati tirino la carretta tutti dalla stessa parte"

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Alfio Longo, classe 1941, nato ad Addis Abeba, per vezzo si autodefinisce una sorta di extracomunitario ante litteram. Dall’età di 24 anni fa l’editore, dapprima insieme al padre Angelo, fondatore della casa editrice, poi continuando da solo l’avventura della carta stampata. Oggi ha 77 anni e ha nel carniere la bellezza di 57 collane, 2 riviste e 1.350 titoli pubblicati. Con lui si parla di Dante, perchè il suo primo libro aveva a che fare con il poeta esule e poi, per tutta la vita, non ha fatto altro che pubblicare opere intorno a Dante.

Dice che Dante è importante per Ravenna quanto Ravenna fu importante per Dante, perchè lo accolse e gli diede fiducia e tranquillità, quando ne aveva grande bisogno. Fu generosa con il poeta la nostra città, come fu generosa con i Longo appena arrivati dall’Africa. Cose che non si dimenticano.

E quando parla di Ravenna Longo si accende, non può che parlarne bene. Mentre quando parla di politica, un velo di mestizia gli scende sul volto: si dice schifato della politica della paura e preoccupato della china che hanno preso le cose nel nostro paese. 

Infine su Dante 2021 dice: tiriamo tutti dalla stessa parte, è una grande prova per la città. Insomma, il suo appello di saggio editore e di discreto intellettuale è quello di fare squadra tutti insieme.

 

L’INTERVISTA

Alfio Longo, cominciamo da suo padre, Angelo, il fondatore della casa editrice. Fu nel 1965, se non sbaglio.

“Sì. Nel 1965. L’anno in cui pubblicammo la nuova edizione de L’ultimo rifugio di Dante di Corrado Ricci.”

Avete cominciato bene, da Dante.

“Sì, Dante ha connotato tutta la nostra storia come casa editrice.”

In catalogo c’è Dante, Dante e poi ancora Dante… è assolutamente centrale.

“Sì. Al momento abbiamo in catalogo forse più di 150 titoli di argomento dantesco. Le stesse Letture Classensi, che cominciarono quasi 50 anni fa, sono ancora la collana dantesca più significativa, diciamo così, pubblicata ininterrottamente da allora, la più presente nell’ambito degli studi danteschi nel mondo. Non esiste qualcosa di simile da un’altra parte.”

Fra l’altro, la sua libreria storica è la Libreria Dante.

“Sì e la casa editrice si chiamava Edizioni Dante all’inizio.”

Una vera passione. Un amore. Ma ci parli delle origini.

“Mio padre era salentino, proprio della punta, di Poggiardo, un paesino vicino a Maglie. Mia madre era di Scandiano di Reggio Emilia. Si conobbero e si sposarono in Africa. Io, infatti, sono nato a Addis Abeba, sono una specie di extracomunitario. Mio padre fu mandato in Africa come volontario e durante la guerra fu fatto prigioniero dagli inglesi, gente tosta. Io avevo un anno quando accadde. Gli inglesi mandarono mio padre, mia madre e me, che avevo un anno, in campo di concentramento, nella Somalia britannica, un posticino da 45 gradi all’ombra, con un litro di acqua al giorno per bere e lavarsi.”

Come avete fatto a resistere?

“Non ci ho lasciato le penne perché mio padre s’inventò la storia di essere infermiere: a Addis Abeba faceva le punture al Duca d’Aosta, che secondo mio padre era una persona molto perbene. Grazie a questa storia, mio padre riusciva a fregare del latte condensato e a passarlo a mia madre sotto la rete metallica che divideva uomini e donne nel campo di prigionia. In questa maniera io e mia madre siamo sopravvissuti. E anche lui.”

Lei è un miracolato.

“Onestamente sì. Dopo il campo mio padre rimase a Massaua in Eritrea e lì aprì un piccolo emporio o negozio che vendeva articoli vari e anche libri e giornali. Era l’unico in città.”

Galeotto fu il libro.

“Rientrammo in Italia e venimmo a Ravenna. Mio padre faceva il custode notturno alla Soprintendenza di Ravenna. E cominciò a pubblicare le prime cartoline e le prime guide ai monumenti e ai mosaici ravennati. Infine, insieme a mia madre aprì la Libreria Dante. Da ultimo, la casa editrice.”

Dante come simbolo di italianità lontano dalla patria prima e come simbolo locale poi?

“Immagino. Il fatto di essere a Ravenna diede quella spinta in più. La storia di Dante attraversa tutta la nostra famiglia. E solo adesso finalmente questa città riesce a capire fino in fondo cos’è e cosa significa Dante per Ravenna.”

Quindi Ravenna, secondo lei, lo sta capendo?

“Secondo me sì. Sotto diverse forme, a diversi livelli. Dagli operatori del turismo ai nostri amministratori comunali.”

Dante può essere un importante valore aggiunto per Ravenna.

“Lo è. Basta fermarsi a pensare un attimo. Quando negli ultimi tre anni della sua vita Dante si trovò a mal partito, venne a Ravenna da Verona, e qui a Ravenna trovò finalmente un momento di calma.”

 

 

Per poter scrivere in pace l’ultima parte del suo poema, come sostengono i dantisti.

“Certo. Perché qui terminò il Paradiso, la parte più impegnativa della Commedia.”

Lei ha pubblicato il catalogo della mostra ora in Classense, dedicata proprio al cenacolo ravennate di Dante. Una mostra documentaria importante, più per addetti ai lavori che per il grande pubblico…

“Esatto. Ci fossero stati più mezzi e supporti multimediali adeguati, sarebbe diventata anche popolare. Detto questo, è una mostra straordinaria. Il catalogo che, come sempre, è ciò che rimane nel tempo, è un catalogo prezioso, perché i due curatori Gabriella Albanese e Paolo Pontari, dell’Università di Pisa, hanno fatto un grandissimo lavoro, pubblicando e traducendo una grande mole di documenti, anche documenti inediti. Ciò restituisce l’idea di cosa sia stato Dante per Ravenna ma anche di cosa sia stata Ravenna per Dante. Non dimentichiamolo.“

Un luogo di pace e serenità.

“Sì e questo ci deve rendere orgogliosi. Quando diciamo che i romagnoli sotto la crosta della diffidenza sono accoglienti, diciamo la verità. Lo sono stati anche con noi. Con mio padre che veniva dal sud e con mia madre che veniva da Reggio Emilia, entrambi arrivati dall’Africa. E con me, praticamente extracomunitario. La città con noi è stata generosa. Noi lo abbiamo sentito e apprezzato. Secondo me deve averlo sentito anche Dante, prima di noi.”

Immagino lei all’inizio fosse un ragazzo di bottega. Poi, quando apriste la casa editrice, aveva 24 anni. Si ricorda il primo libro che lei ha pubblicato assumendo anche una certa responsabilità?

“La prima prova impegnativa fu proprio quella della pubblicazione de L’ultimo rifugio di Dante. I contatti con Eugenio Chiarini li prese mio padre, ma poi quando mettemmo sul tavolo il lavoro, fu lì che cominciai a entrarci dentro e a farmi le ossa. La pubblicazione di un libro richiede dedizione, questo è un mestiere che richiede di praticare le cose…”

È un mestiere che si deve amare…

“Assolutamente sì. Quindi cominciai a occuparmi dei primi due volumi della collana Il Portico, la nostra collana più antica, entrambi di argomento dantesco. Dante è nel dna della nostra casa.”

Cinquantasette collane e due riviste: Il lettore di provincia e L’Alighieri. Com’è il lettore di provincia? Non la rivista, il lettore…

“Il lettore ravennate come tanti e come tutti è molto cambiato nel corso del tempo. Per esempio non c’è più il lettore che segue e compra tutte le novità romagnole e ravennati. Oggi il lettore locale fa delle scelte che spaziano molto. E saltuariamente si ferma sulle glorie locali. Naturalmente tutti i lettori hanno a disposizione talmente tanti supporti e proposte…”

Che c’è da perdersi. C’è una polemica da un po’ di anni sul fatto che gli editori pubblicano troppo.

“È vero. C’è una percentuale non piccola di libri del tutto inutile. Vede, quando mi chiedono che libri pubblico, io rispondo libri da pervertiti (ride, ndr).”

Da pervertiti degli studi e della cultura…

“È così. Molti libri per specialisti o con un mercato difficile, di nicchia, spesso sono i più autentici e interessanti, hanno qualcosa da dire. Invece i libri che hanno un mercato facile, spesso sono inutili e, appunto, costruzioni artificiali per il mercato. C’è poco costrutto. Anche perché da parte del pubblico c’è sempre meno voglia di impegnarsi per leggere qualcosa di stimolante, di non superficialmente e immediatamente appagante. Continuo a pensare che leggere un libro serio, sia un’operazione che richiede un certo impegno, del tempo, un po’ di fatica. Poi tutto questo viene ripagato. Oggi invece si tende al consumo e all’appagamento facile.”

 

 

Le figlie di Alfio Longo – Alberta e Angela – che oggi gestiscono la storica Libreria Dante

 

Tutto questo che effetti ha sull’editoria?

“Provoca la crisi di un certo tipo di editoria che guarda alla serietà, alla qualità, alla specializzazione.”

Oltretutto lei punta su testi scientifici, accademici, universitari…

“Esatto.”

Ci spiega come è nata la storia del Longo americano?

“Negli anni ’60, ‘70, ’80 del Novecento capitava spesso di sentire che in America era difficile trovare certi libri italiani o cose che riguardassero la letteratura italiana, tranne Dante, Petrarca e Boccaccio. E noi ci siamo detti: perché non lo facciamo noi?! Così l’abbiamo fatto. Oggi abbiamo due collane con più di trecento titoli per il pubblico internazionale, perlopiù anglosassone.”

La leggenda narra che lei sia più famoso in America che in Italia.

“Non è una leggenda, è vero. Negli ambienti colti e universitari americani tutti ci conoscono e ci accolgono a braccia aperte. E questa è una grande soddisfazione. Dopo di noi, molti hanno seguito le nostre orme. Per fortuna. Ma resta il fatto che il primo saggio su Italo Calvino in inglese lo abbiamo pubblicato noi. Per anni sono andato in America a presentare il nostro lavoro e, quando mi presentavo come editore italiano di Ravenna, c’era sempre quell’attimo di sbandamento…”

Ravenna? Where is Ravenna? Immagino fosse questa la domanda.

“Esatto. E io a raccontare la solita storiella: è una città che si trova fra Venezia, Firenze e Roma (ride, ndr). Fino a pochi anni fa qui da noi si pensava che Ravenna fosse conosciutissima nel mondo. Ci si cullava in quest’idea, per via dei mosaici bizantini. Ma non è così. Ravenna è conosciuta in una fascia di pubblico di livello alto e colto, ma a livello di massa non è conosciuta. L’idea che tutti ci conoscessero era una forma di provincialismo, come se noi fossimo l’ombelico del mondo. Per fortuna ora c’è un’altra consapevolezza.”

D’altra parte noi abbiamo questa meraviglia dei mosaici ma nel mondo ci sono tante altre meraviglie e nel tempo l’idea stessa di meraviglia e il gusto per il bello sono cambiati…

“Certo. Per esempio, le prime volte che andavo a New York non riuscivo nemmeno a guardare in alto, tanto erano alti i grattacieli di New York, non riuscivo proprio a piegare la testa per guardare fin lassù. E mi ricordo la prima volta che salii sulle due torri, quegli ascensori velocissimi e quelle oscillazioni, la sensazione di muoversi in cielo.”

Abbiamo parlato di mosaici, anche questi sono un centro di interesse della sua casa editrice.

“La cosa cominciò con la pubblicazione degli Atti dei corsi di cultura sull’arte del mosaico. Quello è stato un momento fondamentale. Sono passati da Ravenna gli studiosi del mosaico più importanti del mondo. Sono stati momenti di internazionalizzazione della città, anche se la città non se accorgeva più di tanto. Ma quei corsi ebbero un ruolo decisivo per far conoscere Ravenna. E gli studiosi che venivano a Ravenna dicevano ciò che moltissimi visitatori ripetono anche oggi: che la città è bellissima e che noi viviamo in una specie di paradiso.”

Ma tanti ravennati non se ne accorgono più e si lamentano della loro città…

“Bisogna tenere conto anche di questi, certo, ma in realtà lo sguardo di chi viene da fuori è tanto più illuminante.”

Anche la critica e la lamentela sono una forma d’amore, dopotutto.

“Sì. Certamente.”

Parliamo di Ravenna allora. Che razza di città è?

“È una città in cui si vive molto bene. Abbiamo una città bella. Una città accogliente. Una città dove le cose funzionano, per esempio sul piano sanitario.”

Lei sa bene cosa succede in America…

“Vede quella signora nel quadro? È di Chicago. Un giorno le telefona sua madre anziana e le dice: non mi sento molto bene. Ho chiamato l’ambulanza, ma vogliono cinquemila dollari se no non si muovono. Io non ho cinquemila dollari. Ci puoi pensare tu con la tua carta di credito? Ecco come funziona là.”

 

 

Secondo lei è ben amministrata questa città?

“Secondo me sì. I problemi sono tanti. Problemi anche nuovi. Come il problema dell’immigrazione. Trent’anni fa eravamo quattri gatti e litigavamo solo fra noi. Adesso è tutto diverso. Ma date le circostanze, e per quanto è possibile per un’amministrazione locale, la città è ben amministrata.”

Ha parlato di immigrati. A lei fa paura la politica della paura, questo continuo gridare all’invasione e al pericolo per via degli stranieri?

“A me fa ribrezzo la politica della paura. Uno come Matteo Salvini è uno che fa leva sulle cose peggiori che sono nella pancia di questo paese. E le conseguenze sono assolutamente negative. Lega e M5S sono una strana coppia, pericolosa a mio avviso. Questo sfidare l’Europa, questo cercare nemici e giocare con le cifre, rischia di essere tutto molto pericoloso per gli Italiani, per tutti noi.”

Eppure sono popolari. Cos’è che non va invece nella sinistra? Perché è arrivata a un punto così basso della popolarità e del consenso?

“Perché la sinistra ha perduto il rapporto con le persone in carne ed ossa, non riuscendo così più a farsi carico dei veri problemi della gente. Una volta la sinistra era in mezzo al popolo. E il popolo s’incazzava pure, ma aveva qualcuno con cui poterlo fare. Ora non più. Come faceva la gente a parlare con uno come Renzi, coi discorsi che fa Renzi?! Alla fine la gente, delusa, ha voltato le spalle alla sinistra, s’è lasciata incantare dalle sirene di questi che promettono mare e monti.”

Abbiamo aperto con Dante e finiamo con lui. Che cosa pensa lei delle celebrazioni per il settimo centenario? Si sta facendo tutto quello che dovremmo fare o siamo al di sotto delle aspettative?

“Intanto dobbiamo avere ben chiara una cosa. Quello che si sta facendo e che si farà a Ravenna per Dante è il massimo che si fa nel mondo per Dante. Ravenna fa un casino di cose. Certe volte anche troppe. Nessuno fa tante cose quante ne facciamo noi. Nel merito non è ancora ben chiaro tutto ciò che ha in testa l’amministrazione comunale, ed è anche ragionevole. È un percorso che in parte è ancora da fare. Quello che vedo è buono.”

Lavorare con Firenze e Verona è la scelta giusta?

“È necessario.”

Molto dipenderà da quanti soldi metterà sul piatto il governo?

“Ecco questa è la cosa forse più desolante. Oggi si parla di un milione, un milione e mezzo di euro. Per un fatto mondiale come il settimo centenario di Dante è troppo poco. Ci vuole un investimento più importante. Anche per avere un ritorno in termini turistici ed economici.”

Il suo amico Ivan Simonini è molto battagliero, si può dire lui sia sceso in trincea su Dante. Lei è molto più defilato.

“Lui sostiene che i dantisti sbagliano tutto e sono la rovina di Dante. A me pare una tesi esagerata. Non è così. Non si può fare di ogni erba un fascio. Io credo che le idee buone su Dante ci siano e credo dobbiamo appoggiare la nostra amministrazione per ciò che sta facendo. Poi ognuno può fare anche le sue critiche, legittime, utili. Quello che vuoi. Ma partire dicendo che va tutto male non ha senso.”

Per concludere…

“Ravenna deve avere un ruolo di punta e di preminenza in questi tre anni, primo perché ce lo meritiamo, secondo perché stiamo già facendo tantissimo, terzo perché quello che faremo a Ravenna per Dante non si farà da nessuna altra parte. È un momento cruciale e di grande impatto internazionale per Ravenna: credo sia giusto che i ravennati tirino la carretta tutti dalla stessa parte. Diamo fiducia alla nostra amministrazione e poi controlliamo come cittadini che faccia ciò che ha promesso. Critichiamo, stimoliamo, ma facciamo e aiutiamo a fare. Lavorando tutti nella stessa direzione.”

 

Intervista raccolta da Pier Giorgio Carloni

 

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