Purgatorio atto secondo a Ravenna. Una sfida vinta ancora una volta dopo l’Inferno e dopo Matera

Riprende questa sera la rappresentazione della seconda cantica dantesca di Ravenna Teatro per il Ravenna Festival

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La prima sfida era tenere fede – ovvero creare la stessa energia, la stessa tensione, la stessa emozione – a una rappresentazione, l’Inferno, che aveva stupito Ravenna nel 2017. La seconda era ricreare a Ravenna la magia di Matera, dove lo spettacolo ha debuttato in una cornice magnifica, fra i sassi di un ex convento. Entrambe le scommesse sono state vinte da Marco Martinelli ed Ermanna Monanari e dal Teatro delle Albe nella loro Ravenna. 

 

Il Purgatorio che torna in scena questa sera martedì 2 luglio (repliche fino al 14 luglio) nell’ambito del Ravenna Festival per la seconda settimana, dopo la pausa del lunedì, è una rappresentazione a nostro avviso ancora più matura ed emozionante dell’Inferno e affascina più qui, nella sua casa naturale, che nella pur splendida Matera.

Tutto comincia alle 20 e dintorni alla Tomba di Dante. Come per l’Inferno. E qui ritroviamo due anni dopo le stesse guide di bianco vestite, Marco Martinelli ed Ermanna Montanari. Ma già si fa avanti una prima figura austera e commovente, quella di Catone, che ha il volto antico e gli occhi allucinati di Gianni Plazzi… “Vidi presso di me un veglio, solo”. C’è un caldo opprimente e Plazzi-Catone incespica sulle parole. Si confonde. Si ferma. Le due guide amorevolmente lo sostengono e lo accompagnano alla fine del suo cammeo. Dopo aver trattenuto il fiato, tiriamo un sospiro di sollievo. Per un attimo siamo stati tutti Catone.

La conchiglia suona tre volte, il coro dei cittadini risponde alle chiamate delle nostre guide, le canne del lido sul quale si svolge la scena del primo canto si agitano al vento. E il viaggio comincia.

 

Il tragitto verso il giardino dell’Istituto Verdi e della Casa di Riposo Garibaldi, addossati al Teatro Rasi, che ospitano le scene fondamentali del Purgatorio, è punteggiato di preghiere, versi e incitamenti. Voci e suoni soavi, che avvolgono e rassicurano. Fin dall’inizio l’atmosfera è calma, c’è una tensione serena. L’inferno è alle spalle, siamo tornati a vedere le stelle, dopo tutto, già due anni fa, proprio di questi giorni. E poi si entra nel giardino dell’ascesa e della rinascita. Una P sulla fronte ci viene impressa dagli angeli-bambini.

Il primo impatto è da togliere il fiato. Un lamento di donne ti prende da lontano. Sono le donne morte di morte violenta per mano dei loro uomini, padre, mariti, fidanzati, fratelli. Le donne si chiamano Pia come Pia dei Tolomei che Dante incontra nel Canto V, ma si chiamano anche Giulia, Maria e con tanti altri nomi. Il lamento si fa assordante e straziante. Le parole ora non sono più quelle di Dante ma quelle di Martinelli, prese a prestito dalla cronaca quotidiana dei femminicidi. Ed ecco che ancora una volta l’attualità irrompe sulla scena, con questo coro di donne che grida in faccia a noi – che siam Dante – il loro dolore, il dolore del mondo: la messa in scena diventa messa in vita, come amano fare le Albe.

Il viaggio del riscatto non poteva cominciare in maniera più forte ed emozionante che con un pugno nello stomaco. Fare i conti con le nostre coscienze, per cominciare. Anzi, per ri-cominciare, come dichiarano Martinelli e Montanari.

 

 

In questo Purgatorio, che si snoda fra ampi giardini e vecchi palazzi, incontriamo subito dopo due anime che si pentono in punto di morte, Manfredi (“biondo era e bello e di gentile aspetto” e poco importa che Dante lo incontri prima della Pia… qui non si sta alla pedanteria del testo ma al suo spirito) e quindi Bonconte di Montefeltro.

Poi si torna sui banchi di scuola. Già perchè il Purgatorio è un viaggio di purificazione, un percorso di scoperta della luce e della sapienza, dunque è pedagogia per eccellenza. È paideia che educa al bello, al buono, al giusto. E quale pedagogia più chiara, pulita, dichiarata che tornare tutti – vecchi e bambini – sui banchi di scuola nel circolo dei Superbi (forse la scena chiave di questo Purgatorio), per fare i conti con le nostre miserie e con le nostre false coscienze. Siamo-siete schiavi senza padrone, ci ricordano le guide. Degli illusi. Illusi del nostro benessere, del nostro successo (risuonano le parole di Oderisi da Gubbio sulla gloria umana che è come un fiato di vento: “Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido / sì che la fama di colui è scura”), della nostra presunta libertà. La demistificazione è affidata al Coro Beuys e agli insegnamenti di questa figura complessa, artista totale, che credeva nell’arte partecipata, nell’arte impegnata, nella bellezza, nell’umanità capace di trasformare e trasformarsi, di creare e di farsi arte. Un’umanità capace di riscattarsi.

Beuys è un ecologista – fondatore dei Verdi di Germania – e dunque ci fa riflettere sui destini del mondo e dà un segno politico chiaro a questo Purgatorio di Dante-Martinelli, che ritroveremo anche più avanti quando si salirà al Paradiso. Non è un caso che la vicenda dei Superbi si chiuda con una scena di Uccellacci e Uccellini di Pier Paolo Pasolini con Totò che intona il Cantico delle Creature di San Francesco: la mente corre subito all’oggi, a Papa Francesco, alla sua enciclica “ecologista e umanista” oltre che cristiana “Laudato Si'” che sollecita tutti a prenderci cura della nostra casa comune alla maniera in cui Francesco parlava di nostra madre terra.

 

Dopo l’invidiosa Sapìa incontriamo altri banchi di scuola. Stavolta a parti invertite. Noi di qua ad ascoltare. Sui banchi i bambini che ci insegnano, con il loro candore, lasciando briglia sciolte alle emozioni e ai sentimenti. È il coro dei vermi e delle farfalle (“che noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla”). È il purgatorio dei poeti in cui echeggiano i versi di Whitman e Majakovskij, Dante e Donne. I vermi-farfalle ci ricordano come non abbia senso salvarci da soli, che dobbiamo salvarci tutti insieme. Dunque, il Purgatorio come purificazione individuale e collettiva a un tempo. Riscatto personale e della polis, quindi atto politico.

Dichiaratamente politico è il passaggio agli Iracondi, a cui il poeta rivolge la famosa rampogna “Ahi serva Italia, di dolore ostello”. Qui di fronte a un’Italia rovesciata si ragiona di malaffare, corruzione e abusi di potere. I mali dell’Italia di Dante e quelli dell’Italia di Martinelli. I mali del mondo. Ed è Marco Lombardo a ricordarci che siamo noi uomini causa del nostro male, perchè siamo noi che facciamo e infrangiamo le leggi, che s-governiamo le cose del mondo. 

Dopo gli Avari (Re Ugo Capeto e Papa Adriano V), attraverso il fuoco purificatore arriviamo infine al Paradiso terrestre. Dove Dante perde Virgilio ma ritrova Beatrice che lo rimbrotta per le sue debolezze. Ma ormai il percorso di redenzione è giunto al termine, non prima però di avere ascoltato il coro delle Matelde che diventa quello delle piccole Greta Thunberg con le trecce e l’impermeabile giallo. La loro invettiva verso il potere e gli adulti non potrebbe essere più chiara: “Voi non avete più alibi e noi non abbiamo più tempo”. In gioco ancora una volta il futuro del pianeta, il bisogno di riparare ai guasti della dissipazione delle risorse, della distruzione dell’ambiente, della distribuzione iniqua delle ricchezze. Ed è un’invettiva tanto più forte perchè pronunciata alle porte del Paradiso.

Infine la benedizione che netta la P impressa sulla fronte all’ingresso del Purgatorio, a dire che siamo pronti, che il Paradiso ci attende.

 

Che dire ancora di quest’opera? Che i grandi spazi nei giardini e sulle scale dei palazzi ove si svolge la rappresentazione hanno consentito a Ravenna soluzioni sceniche potenti e convincenti. Con spinte e prospettive ascensionali che rimandano alla montagna del Purgatorio anche nella piatta Ravenna.

Che l’intento pedagogico, etico e politico – che pure è dichiarato – appare misurato e necessario per legare il passato al presente, per riscrivere e attualizzare Dante, e non cade mai nel pedante e nel moralistico. Eppure il rischio poteva essere forte. 

Che la messa in scena pensata e costruita per il luogo, per l’azione corale e per il contatto fra attori e pubblico è efficace e coinvolgente: qualcuno l’ha definito come un “corpo a corpo” di attori e pubblico che si fa celebrazione collettiva, rito civile, “un percorso scenico e narrativo, metaforico e letterale, il quale per struttura e concezione rimanda dichiaratamente alla sacra rappresentazione medievale.” Un qualcosa di così antico ma anche di così moderno e di così necessario, come ci ricordava nella sua intervista di qualche giorno fa Frank Hentschker.

A cura di Pier Giorgio Carloni

 

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