L’OMBELICO D’ORO / Maurizio Braghittoni e l’epica dei capanni ravennati, fra partigiani e scannatoi, brodo-dotto e schioppettate

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Bentornati all’Ombelico d’Oro, rubrica culturale psammofila per tempi salati. Sono sempre stato affascinato dai capanni delle nostre valli e dei nostri fiumi. Quando in macchina passo lungo la Baiona istintivamente rallento per sbirciare quelle costruzioni sbilenche che si riflettono sulle acque. Sarà un legame atavico, inconscio forse, a cui ogni ravennate non si può sottrarre osservando questi “prototipi” della nostra città, che spuntano dalla palude come testimonianze fossili del nostro passato palafitticolo. O forse sarà il richiamo dell’epica nostrana, che li lega alla Trafila garibaldina e ai combattimenti della brigata “Mario Gordini”, durante i momenti più duri della Resistenza.

Sia come sia, ho deciso di fare qualche domanda a un grande conoscitore dei capanni e della loro cultura, Maurizio Braghittoni, presidente dell’Associazione Italiana Pesca Sportiva e Ricreativa, conosciuta anche come Associazione dei Capannisti. Romagnolo verace, dalla fisionomia secca e ruvida, Braghittoni, in una chiacchierata fra dialetto e italiano, mi ha raccontato alcuni aneddoti curiosissimi. Buona lettura.

capanno garibaldi

Qual è la storia dei capanni?

«Alcuni dei capanni sulla Baiona sono molti antichi. Il più vecchio risale addirittura al 1911. La maggior parte dei capanni è stata costruita prima del 1967: sono quelli che, dopo il regolamento comunale del 2015, hanno diritto alla riqualificazione. Sono sempre stati luoghi isolati, abitati da dissidenti o rivoltosi. Una volta, prima delle bonifiche, le valli erano molto più estese, arrivavano fino a San Romualdo. Non è un caso che abbiano ospitato prima Garibaldi e poi i partigiani. I tedeschi non potevano accedere a queste zone con mezzi pesanti. Col tempo sono diventati luoghi aggregativi: si andava nei capanni per bere, mangiare, stare assieme. Per parlare di sport e di politica».

Quando c’è stato il boom dei capanni?

«Prima della guerra i capanni non erano così tanti, il loro boom è stato contestuale al boom economico. In molti casi sono stati costruiti dai portuali col legno di rimanenza che prendevano scaricando le navi. Anno dopo anno, hanno tirato su capanni, trasformando sgabuzzini per la legna in veri e propri padelloni di 3×4. Per questo, se dovessimo applicare le regole dell’urbanistica reale su queste costruzioni si dovrebbe buttare giù tutto. C’è stato un periodo che venivano su come funghi: dagli anni ’60 fino agli ’80 circa».

E oggi?

«È un fenomeno che negli ultimi anni si sta affievolendo. Il tasso d’età dei capannisti è molto elevato: io ho 70 anni e sono fra i più giovani. È chiaro che, fra l’età e l’introduzione del nuovo regolamento, lo slancio si è un po’ attenuato. Per riqualificare un capanno bisogna spendere soldi: si può arrivare anche a 30 mila euro. E se hai una pensione di 900 euro, ci pensi bene prima di intaccare il tuo tesoretto della terza età».

Perché secondo te non c’è un ricambio generazionale?

«Il ricambio generazionale è diventato più difficile. In primo luogo lo stato sociale è molto peggiorato, sia per i pensionati che per i giovani. Quasi sempre, per i nuovi soci, si tratta di figli o parenti dei vecchi capannisti. Bisogna avere passione per volere investire, senza contare che fra 8-10 anni ti potrebbe arrivare un’ingiunzione di demolizione. Un capanno sul Reno può costare anche 120 mila euro. Se non sei appassionato, ti conviene prendere un appartamentino al mare! Fra 10 anni è probabile che molti dei capanni che vediamo adesso non ci saranno più. Spero nella Regione. C’è una sorta di tacito accordo fra capannisti e Regione: i capannisti pagano per l’occupazione del terreno e alla Regione arriva ogni anno circa un milione di euro. È una situazione che fa comodo anche a loro. È chiaro però che si tratta di una posizione ambigua, sempre sul filo del rasoio».

Di quanti capanni associati si parla?

«I nostri associati vanno da Rimini fino alle zone attorno al Po di Volano, nel ferrarese. Sulla costa romagnola, intesa in questo senso largo, si parla di circa 700 capanni. A Rimini ce ne sono 4 o 5, sul demanio marittimo; sul Po di Volano sono circa una quarantina. Ma la maggiore densità è qui da noi: a Porto Garibaldi se ne contano circa 160, come per la Baiona. In Pialassa, dietro a Marina Romea per intenderci, sono circa un centinaio. Senza contare quelli disseminati sulle golene dei nostri fiumi: dai Fiumi Uniti, al Bevano, al Reno, dove ho il mio capanno».

Un capanno sui Fiumi Uniti

Da dove vengono i capannisti? È un fenomeno solo romagnolo?

«La grande maggioranza dei capannisti è romagnola. C’è gente di Forlì, Cesena; molti sono dell’entroterra, vengono da Fusignano, Mezzano. Ma conosco anche qualcuno che viene da Brescia. Si sono innamorati di questi luoghi. Vai in un capanno in fondo alla Pialassa, magari al tramonto o all’alba: non c’è mica niente di più bello».

Il fenomeno è tipicamente maschile, giusto?

«Sì, fino agli anni Ottanta il fenomeno dei capannisti era tipicamente maschile. Si pescava e si mangiava in compagnia; e certamente c’erano anche i cosiddetti “scannatoi”. Era una valvola di sfogo dalla vita quotidiana. Poi, a mano a mano che i capannisti andavano in pensione le cose sono cambiate: si hanno meno grilli per la testa da anziani! Ti faccio un esempio: entrando nel mio capanno c’è la sala, abbastanza grande. Poi una volta c’era a destra la porta che portava in cucina, e a sinistra quella della camera da letto. Quando abbiamo dovuto buttare giù una parte del capanno abbiamo scelto la camera da letto… direi che questo è significativo! Ogni tanto si fanno cene con le mogli, ma spesso si va in rottura. “Non vi vergognate di buttare le cicche per terra?”, “Ma guarda che dopo passiamo lo straccio”, e si rovina l’atmosfera conviviale! A parte gli scherzi, conosco molte coppie anziane che ci vanno la mattina: restano a mangiare, si riposano un po’, e poi verso sera tornano a casa».

Hai notato gli effetti del cambiamento climatico negli ultimi anni?

«I cambiamenti si vedono eccome. L’aumento della salinità, ad esempio, dovuto a una diminuzione dell’apporto d’acqua dolce. Qui da noi, in Pialassa, le cose vanno ancora bene: abbiamo due o tre canali, fra quello del Centro Ippico e il Fossatone, che assicurano l’acqua dolce tutto l’anno. Per capirci, nella zona est della valle siamo al 10-11% di salinità. Ma a Porto Garibaldi e nelle valli di Comacchio si raggiungono punte anche del 38%. Finisce che nei fiumi entrano pesci serra, barracuda; le anguille fanno più fatica a riprodursi. Con l’aumento delle temperature alcune specie, come la passera pianuzza, va a deporre le uova più a nord, verso Trieste, dove l’acqua è più fredda. Poi c’è da contare anche la maggiore frequenza di piene violente sui nostri fiumi. Nonché l’azione diretta dell’uomo, come il bracconaggio, che porta danni enormi per l’ecosistema. Di solito quelli lavorano di mattina presto, verso le 4, o intorno a mezzanotte. Si spostano verso le foci, dove c’è più prodotto, e tirano su tutto con gli aspiratori. In questo modo si rovina il fondale, e vanno perse le uova di 25-30 specie diverse».

Nei capanni, durante la Resistenza, si è fatta la storia di questo paese.

«Mio padre era partigiano, combatteva nella Brigata Gordini, ed era amico di Bulow. Quando Bulow tornava da Roma, veniva volentieri nel nostro capanno perché la domenica facevamo i cappelletti in brodo, che giù a Roma non si trovava mica. Con la Resistenza i capanni hanno trovato una tradizione, secondo me. Questi luoghi erano rimasti nella memoria dei partigiani, ci si erano affezionati. Tornavano spesso qui per ricordare quei giorni, per parlare assieme. Da piccolo sentivo spesso i loro discorsi: “At arcurdat quand ch’e segna in tla val…” Io stesso ho scoperto che mio padre aveva combattuto la celebre “Battaglina” proprio nel nostro capanno, quando dopo mangiato si sbottonava un po’ e si metteva a raccontare».

Mi racconti qualche storia di capannisti? Immagino che di gente strana tu ne abbia conosciuta un bel po’…

«Sì, molta… Ad esempio ricordo una famiglia, due fratelli e le loro mogli, che vivevano nel loro capanno per una buona metà dell’anno. Uscivano solo per fare la spesa. Ogni tanto passavo di là e li andavo a salutare: ero ancora giovane, saranno stati gli anni ’80, e mi chiamavano ancora “tabac”. Al tempo ci si conosceva quasi tutti. Poi c’erano molti tipi strambi e solitari. Ne conoscevo uno: capelli lunghi, gran lettore. Ai tempi fumavamo e bevevamo assieme. Ha avuto per molti anni un capanno sulla Baiona; poi ha abbandonato tutto ed è andato ad abitare in montagna, in una casina di legno, dove vive ancora, là da solo. Se ne andò perché gli prese un disgusto totale dei cambiamenti fra i capannisti, aveva cominciato a odiare le persone. Mi diceva: “Una volta mi conoscevano tutti qui, ci si fermava volentieri a parlare… adesso se chiedi a qualcuno un bicchiere d’acqua ti danno una schioppettata”. E a proposito di schioppettate… Ricordo che in quel periodo, ai Mulnèr, avevamo conosciuto Giangrandi, il pittore. Avevamo molto rispetto per lui. Un giorno ci dice: voglio fondare un partito. E noi: maestro, ci racconti bene, qual è il suo programma? E lui risponde che la prima cosa che voleva fare era un brodo-dotto… Era un grande amante del brodo. E noi gli chiedemmo: ma come si fa a fare un brodo-dotto, maestro? Semplicissimo: costruisci una torretta, la riempi d’acqua, ci accendi una fiamma sotto e ci butti dentro dei polli; così, nei capanni, per tutto l’anno, può arrivare il brodo caldo. Noi non ridemmo per rispetto, ma pensammo che il maestro non ci fosse più tutto con la testa. Passano gli anni, non lo vediamo più in giro. Pensavamo fosse morto. Poi ci arriva la voce che era andato ad abitare in un capanno proprio in mezzo alla valle. Decidemmo di prendere la barca per andare a trovarlo. Quando siamo a 300 metri, ecco che salta fuori Giangrandi. Lo chiamiamo: “Maestro, maestro, siamo noi!”. Lui guarda, rimane in silenzio e torna dentro casa. Pensiamo: ci darà da attraccare. Mo ché: e selta fura cun la s-ciopa e taca a des dal s-ciupté. “Torna poi indietro” dico, questo è diventato matto davvero. Secondo me quell’ambiente aiuta a far venire fuori personaggi così».

Capanni da pesca

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