L’OMBELICO D’ORO / Aleksandr Blok, poeta russo e infelice, il viaggio nell’Italia-museo e i versi per Ravenna, bambino che dorme

Bentornati all’Ombelico d’Oro, rubrica culturale serafica per tempi calamitosi. Mi darete del filoputiniano se oggi parlo di Blok? Vedremo. Alla fine di questa breve incursione potremmo scoprirci assai più russi di quanto immaginiamo.

È il 1909. Aleksandr Blok, forse il più influente poeta russo della sua generazione, ha 29 anni e vive a San Pietroburgo. È di buona famiglia borghese; è sposato con Ljubov Mendeleeva (sì, la figlia del chimico Mendeleev); è famoso in tutti i circoli culturali russi per le sue poesie simboliste e mistiche e le sue opere sono messe in scena dal geniale regista Mejerchol’d nei migliori teatri dell’Impero; ma soprattutto, Blok è infelice.

Ha rotto coi suoi vecchi compagni d’arte. Non ha più contatti con quegli stessi circoli che hanno contribuito alla sua fama. Vive soprattutto di notte: frequenta le peggiori locande di San Pietroburgo, si stordisce d’alcol, si accompagna volentieri con signorine equivoche. Le poesie di quest’epoca sono intrise di uno spleen profondo e senza appello: Blok disprezza i borghesi, le loro ipocrisie; è tediato da San Pietroburgo e dalle sue paludi, dagli immensi panorami russi piatti e senza sorprese.

Blok trascorre l’esistenza aspettando un rivolgimento mistico universale (in un qualche modo, alla lontana, potrebbe ricordare uno Yeats meno convinto delle sue proprie invenzioni): sogna una grande bufera che spazzi via le piccinerie e gli stordimenti della vita quotidiana, che cancelli il “mondo terribile” che lo circonda. Sente avvicinarsi qualcosa all’orizzonte, una tempesta rossa: la presagisce nelle sue poesie, nei suoi diari. Ma ogni ora passata nell’attesa diventa una tortura. Quindi, fa quello che ogni buon russo colto deve fare in questi casi: un viaggio in Italia.

Nell’estate del 1909 Blok, passando per la Germania, varca le Alpi e giunge nel Bel Paese, in piena epoca giolittiana. Visita qualche città, si riempie gli occhi delle bellezze di cui avrà letto qualcosa nei suoi libri. Scrive qualche lettera, qualche poesia: ma la cura italiana non pare sortire un grande effetto, stando a quello che scrive alla madre da Milano (tutte le traduzioni sono di Angelo Maria Ripellino): “Giugno 1909. La gente è per me abominevole, la vita tutta è un orrore. La vita europea è altrettanto schifosa di quella russa; in genere tutta la vita degli uomini in tutto il mondo è, a parer mio, una pozzanghera mostruosamente lurida”.

Non si tratta di un generico lamento esistenziale da dandy. È proprio insoddisfatto del nostro paese. Questa è una lettera dello stesso anno, inviata dalla Germania sulla via del ritorno: “Mi hanno colpito la bellezza e la familiarità della Germania, i suoi costumi per me comprensibili e l’alto lirismo di cui vi è permeata ogni cosa. Ora è perfettamente chiaro che metà della stanchezza e dell’apatia derivava dal fatto che in Italia non si può vivere. È il paese meno lirico che esista: non c’è vita, ma solo arte e antichità. E perciò, uscendo da una chiesa o da un museo, ti par d’essere in mezzo a non so che assurda barbarie. Gli italiani non sono uomini, ma sgradevoli bestioline strillanti… Patria del gotico è soltanto la Germania, il paese più affine alla Russia, eterno rimprovero per lei. Oh, se i tedeschi prendessero la Russia sotto la loro tutela! Respireremmo meglio, e avrebbe termine tutta questa ignominia. Solo qui è una vera religione della vita – una vita gotica, che sa render sacro persino il servizio statale…

Sorprendentemente, il simbolista russo disprezza il nostro paese proprio per la stessa ragione che aveva incantato altri importanti visitatori: i tempi di Ruskin sono ormai lontani. Blok vuole sentire la vita – la “religione della vita”, la sua sacralità; e il paragone fra l’antichità e il presente è impietoso. Non c’è lirismo, ma solo barbarie, “bestioline strillanti”, lo squallore di una vita provinciale che pensava di essersi lasciato alle spalle.

Per motivi opposti a quelli dei futuristi (Blok non cerca velocità, modernità, svecchiamento, ma piuttosto mistero, lirismo, un altrove), il poeta approda a una conclusione analoga: in un museo non si può vivere. O come scrive in un’altra lettera: “Un viaggio in un paese ricco di passato e povero di presente è come una discesa nell’inferno dantesco”.

(Ci sarebbe tra l’altro da scrivere molto sulle parole acute che Blok dedica alla Germania: quell’appunto sulla “vita gotica che sa render sacro persino il servizio statale”, dopo Eichmann e le SS, suona incredibilmente sinistro e presago…)

Blok dedica tre poesie ad altrettante città italiane. Firenze, Venezia e Ravenna. La prima lo delude profondamente: “Muori Firenze, Giuda | svanisci nelle tenebre dei secoli! | Ti scorderò nell’ora dell’amore | non sarò teco nell’ora della morte!” – direi che l’incipit può bastare.

Con Venezia Blok è appena più indulgente. Osserva la laguna e fantastica di una futura vita, sogna un’evasione. Chissà, potrebbe anche rinascere qui nel secolo venturo, e dimenticare le noie russe. Ma il sogno è irrimediabilmente reciso negli ultimi versi: “Un vento gelido dalla laguna | silenziosi feretri di gondole. | Stanotte io sono steso – infermo e giovane – accanto alla colonna del leone. (…) Si attenua l’ostinato fragore della vita. | Si ritrae la marea delle inquietudini. | Ed un vento tra il velluto nero | canta della futura mia esistenza. | Forse mi desterò in un’altra patria, | magari in questa terra tenebrosa? (…) No! Ciò che esiste, che è esistito – è vivo! | Visioni, fantasie, pensieri – indietro! | L’onda dell’alta marea che ritorna | li scaglia nella notte di velluto!”

Rivivere 100 anni dopo a Venezia? Tra le gondole-feretri, i turisti e il ponte di Calatrava? Proprio no. Si tratta di rimanere, nonostante tutto, attaccato alla vita presente. Se queste sono le premesse, verrebbe da dire, figuriamoci ciò che potrebbe scrivere di Ravenna: la “bella morta”, per un poeta che cerca la vita, non potrà che essere una meta deludente. Ed è qui che Blok ci stupisce.

Per un attimo Blok smette di riflettere su se stesso e sulle sue rovine interiori, per osservare le rovine che ha davanti. Come prevedibile, tutto è calma, tutto è avvolto in un silenzio di tomba (e in certi passaggi Blok sembra anticipare di cinquant’anni le riflessioni di Yves Bonnefoy).

I protagonisti che ci aspettiamo ci sono tutti: Galla Placidia, i mosaici, Teodorico, Dante. Alcune immagini sono un po’ logore, e fanno parte degli stereotipi esteri sulla città (le indorature, “i lenti baci dell’umido”, il mare “ritirato in lontananza”, gli ubiqui sarcofaghi); ma la similitudine iniziale è, almeno per il sottoscritto, originale e feconda come poche altre – e credo sia la chiave per capire il sorprendente elogio di Blok.

Tutto ciò che è fugace e perituro

nei secoli da te fu seppellito.

Come un bambino tu dormi, Ravenna,

in braccio all’assonnata eternità.

Per le porte romane umili schiavi

ormai non introducono mosaici.

Si va spegnendo ormai l’indoratura

sui muri delle tue fresche basiliche.

I lenti baci dell’umido rendono

più delicata la ruvida volta

di cripte in cui verdeggiano sarcòfaghi

di monaci santi e regine.

Silenziosa le sale sepolcrali,

ombroso e freddo il loro limitare,

ché il nero sguardo della beata Galla

non infiammi, destandosi, la pietra.

Della mischia guerriera e dell’oltraggio

è cancellata l’ormai sanguinosa,

ché la risorta voce di Placidia

non canti le passioni dei vecchi anni.

S’è ritirato in lontananza il mare,

e le rose circondano il bastione,

ché Teodorico dormiente in un feretro

non sogni la tempesta della vita.

Ed i deserti coltivati a vigne,

case ed uomini – tutti sono tombe.

Solo il bronzo di un aulico latino

sulle lapidi canta come tromba.

Solo nel fisso e taciturno sguardo

delle ragazze di Ravenna, a volte,

la tristezza d’un mare irrevocabile

trascorre in una timida vicenda.

Solo a notte, chinandosi alle valli,

enumerando i secoli futuri,

l’ombra di Dante dal profilo d’aquila

vien cantando per me la Vita Nuova.

Chiese, penombre, tombe, silenzio, muffa e umidità: la fotografia è precisa e storicamente esatta. Eppure in questa poesia non sentiamo la morte. Galla e Teodorico dormono: e la città li protegge, rispetta il loro riposo. Tutto sonnecchia. Ma attorno a queste tombe, la natura vive, incosciente e calma: le rose crescono accanto al Mausoleo di Teodorico; la campagna è fitta di vigne; l’umido delle chiese è un bacio di sollievo dall’afa. Addirittura, le iscrizioni delle tombe squillano come ottoni nel silenzio.

Nel sopore estivo che preme su Ravenna, Blok rintraccia un timido movimento, e non potrebbe essere più lirico: da una parte lo sguardo “taciturno” e melanconico delle ragazze; dall’altra la figura umbratile di Dante, che è tutta proiettata al futuro. Come un profeta, solo in mezzo alle valli, Dante enumera per Blok i secoli che devono ancora venire, e canta per lui una vita nuova.

Ravenna non è morte, non è vecchiaia estenuata, ragnatela: è un bambino che dorme. Questa immagine fulminante racchiude l’essenza della poesia. Il bambino è figlio dell’eternità, riposa sul suo grembo. È l’erede inconsapevole della continuità della storia. Ravenna, in questa immagine, non conserva la morte, non è sudario; Ravenna protegge con delicatezza di bambino la vita, la vita vera ed eterna: la vita nuova, appunto – forse quell’altrove che Blok aveva cercato invano a Firenze, a Venezia, a San Pietroburgo.

(continua la settimana prossima)

Blok

Nelle foto: Blok a 25 anni circa; Blok e la moglie Mendeleeva recitano l’Amleto, 1898