L’OMBELICO D’ORO / Alla scoperta della villa scrigno Ghigi-Pagnani, centro propulsivo dell’avanguardia nella Ravenna del dopoguerra grazie a Roberto Pagnani

Bentornati all’Ombelico d’Oro, rubrica culturale incostante per tempi inesorabili. A un primo sguardo distratto potrebbe sembrare una villetta come tante, immersa nel verde di un quartiere residenziale. Un bel giardino, i coppi rossi, l’intonaco color crema: insomma, tutti i caratteri che contraddistinguono quella medietas tipica della borghesia ravennate. E invece quella casa costudisce un tesoro. Per un decennio, dal ’55 al ’65, la villa Ghigi-Pagnani è stata un centro propulsivo e all’avanguardia per l’arte contemporanea. Nella Ravenna del dopoguerra, che dal punto di vista artistico viveva ancora di classicismo, Roberto Pagnani, ravennate classe 1914, portò in provincia i nomi più importanti dell’informale.

Villa Ghigi-Pagnani

Villa Ghigi-Pagnani 1955-Archivio Pagnani 

Moreni Martini

Moreni e Martini a Brisighella alla fine degli anni Cinquanta – fotografia di R. Pagnani – Archivio Pagnani

La storia, che mischia meraviglia e tragedia, pare uscita dal cilindro di un Giorgio Bassani; ma villa Ghigi-Pagnani non è immaginaria come quella dei Finzi-Contini: è lì, esiste ancora oggi, conservata e curata dall’omonimo nipote del suo creatore. Progettata nel ’55 dall’architetto ravennate Luciano Galassi (fratello del più famoso Enrico), villa Ghigi-Pagnani rappresenta il prototipo del buen retiro della borghesia romagnola che sarà sperimentato, nel decennio successivo, a Marina Romea. Una villetta isolata, circondata da un ampio giardino; l’esterno umile, che imita nei coppi l’embricatura dei monumenti paleocristiani del centro.

È fra queste mura che Roberto Pagnani inizia, nel dopoguerra, la sua peculiare attività di curatore e collezionista di arte informale. Liberale, antifascista amico sia di Arrigo Boldrini che di Benigno Zaccagnini – che gli affiderà la direzione di Democrazia, settimanale locale emanazione del CLN – Pagnani era sposato con Raffaella, della facoltosa famiglia Ghigi.

Con l’avvento della Repubblica, Pagnani comincia a interessarsi di cultura. Recensisce mostre, parla dei problemi dell’Accademia di Belle Arti, entra in contatto con grandi storici dell’arte, allievi di Roberto Longhi: il bolognese Francesco Arcangeli e Alberto Martini. Quello che poteva limitarsi a un interesse amatoriale elitario, si trasforma ben presto in un impegno assiduo, che lo porterà a conoscere, sostenere e invitare a Ravenna i più importanti esponenti dell’informale francofono e italiano.

In piena Guerra Fredda, la battaglia per l’egemonia culturale in Europa raggiunge il suo acme: da una parte il realismo socialista dei sovietici, che privilegia monumentali rappresentazioni di lavoro collettivo; dall’altra l’informale, prima francese e poi, soprattutto, americano, che si concentra sull’azione libera e diretta dell’individuo, come avviene per esempio nell’action painting di Pollock.

Nel giro di pochi anni, villa Ghigi-Pagnani diventa un vero cenacolo intellettuale, che vede passare nelle sue stanze i nomi più in vista della nuova corrente artistica: su tutti Mattia Moreni, esponente del famoso Gruppo degli Otto assieme a Emilio Vedova, Afro Basaldella e Renato Birolli, che si divideva all’epoca fra Palazzo San Giacomo a Russi e una soffitta sopra il Moulin Rouge di Parigi; e poi Georges Mathieu, francese, inventore del “mosaico informale”, che diventerà un grande amico di Pagnani.

Pagnani Mathieu

Pagnani assieme a Mathieu davanti a un mosaico informale 1959 – Archivio Pagnani

«La collezione ospita oggi circa 60 opere di personalità fra le più significative di quel periodo», mi racconta Roberto Pagnani, nipote dell’inventore di Villa Ghigi-Pagnani, a sua volta artista. «Abbiamo pezzi dei Tarocchi di Niki de Saint Phalle, di Emilio Vedova; ma anche Osvaldo Licini, e molti americani o naturalizzati tali, come Mark Tobey, Arshile Gorky, uno dei più grandi espressionisti americani; il lituano Ben Shahn, famoso per l’impegno sociale e il suo ritratto di Sacco e Vanzetti; o ancora Toshimitsu Imai, il padre dell’informale giapponese. Poco prima della sua scomparsa, mio nonno aveva cominciato a interessarsi all’anti-procés, una corrente che mirava a sostituire l’informale, già in declino. Uno dei primissimi artisti di questo movimento fu Daniel Pommereulle, un artista d’avanguardia che pitturava sotto l’effetto dell’LSD, nonché attore con Rohmer e Godard. La prima mostra personale di Pommereulle fu proprio a Ravenna, nel ’62, grazie a mio nonno».

Esploro la collezione guidato da Roberto, che mi mostra due vere chicche. La prima è un quadro di Gianni Dova, pittore nuclearista e spazialista che andava fortissimo negli ambienti milanesi fra i ’50 e i ’60. Quando Antonioni venne a Ravenna per girare Deserto rosso, visitò la collezione e volle inserire nel film il quadro La sagra della primavera di Dova (nella foto sotto), filologicamente perfetto per la coppia protagonista del film, che nella finzione viene proprio da Milano. La seconda è un passavivande d’autore, realizzato da Moreni appositamente per la casa: il quadro separa ancora oggi la cucina dal salotto.

Gianni Dova

«Ogni opera d’arte, qui, ha una sua rintracciabilità, e questo è molto importante per la collezione, perché possiamo ricostruire la sua storia. Questo è stato possibile grazie all’attenzione di mio nonno, che conservava addirittura le minute di tutte le lettere spedite a critici e artisti. Quello che differenzia questa collezione da molte altre simili non è tanto la quadreria – che rimane comunque di grande qualità – ma la documentazione conservata. Conserviamo migliaia di lettere e di fotografie, importantissime per gli studiosi d’arte. Mio nonno non fu un collezionista speculativo, ma un collezionista colto. Seguiva i suoi artisti, li aiutava ad emergere, spesso comprando intere serie di quadri. Questa è una collezione ragionata, frutto di un progetto preciso: e la sua dotazione epistolare e fotografica ne fa un unicum in Italia».

Accanto a quella di Pagnani c’è un’altra figura di primo rilievo che anima in questi anni la villa. Si tratta di Alberto Martini, classe ’31, cresciuto fin dall’infanzia a Ravenna. Allievo di Longhi, Martini fu un innovatore della divulgazione artistica. Si deve a lui l’invenzione de I maestri del colore, celebre collana della Fabbri Editore che aveva l’obiettivo di portare in casa di tutti gli italiani edizioni artistiche economiche ma di grande qualità critica e grafica. Un pioniere: «Aveva iniziato a collaborare con la Rai per realizzare interviste ad artisti contemporanei, ma non ebbe il tempo di ultimarla. Fu uno dei primi a comprendere l’importanza dei mass media per divulgare l’arte, sia contemporanea che antica».

Oggi la sala conferenze del Mar è dedicata a Martini, ma scommetto che non sono in molti a conoscere la sua storia. Quella che poteva essere un’occasione di vero svecchiamento per la cultura ravennate si interrompe bruscamente, l’8 maggio del 1965. Un incidente automobilistico si porta via Pagnani e Alberto Martini, che all’epoca era 34enne. «Tornando da una cena in Valmarecchia mio nonno perse il controllo della sua Citroën DS in curva, poco lontano da Santarcangelo. L’impatto fu terribile, spezzarono un platano. Mio nonno e Martini morirono sul colpo, mia nonna il giorno dopo per emorragie interne», mi racconta Pagnani.

Al tempo della morte di Pagnani, suo figlio, il padre del Roberto che mi guida oggi per le sale, aveva solo 20 anni, e per legge non era ancora maggiorenne. Per pagare le tasse di successione dovette vendere molte opere della collezione, alcune delle più importanti, fra cui lavori di Giacometti, Appel, Moreni.

Studio Pagnani

Studio Pagnani

Ma l’amore per l’arte e la cura per la conservazione si è trasmessa di padre in figlio, fino ad arrivare a Roberto, che oggi fa l’artista e ha uno studio proprio nel solaio della villa (nelle foto sopra). «Io sono espressione diretta di questo luogo. È stata la mia accademia personale», mi confessa.

Cresciuto fra Ravenna e Bologna, Pagnani impara infatti a dipingere in casa, ancora adolescente, guidato da suo padre. Poi, dopo un diploma come perito tecnico-agrario e una laurea in Storia medievale a Bologna, va a bottega da Giuseppe Maestri, altro gigante della cultura ravennate, dove impara l’arte dell’incisione. «Ho imparato da lui varie tecniche, la cera molle, la puntasecca, l’acquatinta. Anche Nicola Samorì si è affinato in quella bottega. Maestri era uno stampatore rispettato e frequentatissimo da molti grandi artisti: Giò Pomodoro, Moreni, Tonino Guerra, tutti andavano da lui. Era un luogo bellissimo».

È recentissima la notizia della creazione di un’associazione culturale in collaborazione con Claudia Agrioli, che ha aperto, nel 2019, lo spazio espositivo Pallavicini 22, poco distante dalla stazione. Da qualche anno Pagnani collabora con lei come curatore. «Con Claudia è nata una grande amicizia. Ammiro il suo coraggio e la sua dedizione. Ha voluto riqualificare la zona convertendo uno stabile di sua proprietà a galleria d’arte. Quell’area è diventata un luogo difficile, una zona di spaccio. Aprire una galleria proprio lì ha un grande significato culturale e sociale».

A oggi, la galleria Pallavicini 22 ha già ospitato mostre personali e incontri culturali, con artisti del territorio e nazionali piuttosto importanti. Questo 2022 sarà dedicato soprattutto ai maestri del mosaico contemporaneo, fra cui le personali di Marco Bravura, Verdiano Marzi e Felice Nittolo, curate da Luca Maggio e dal nostro Pagnani che, dopo mezzo secolo, torna sulle orme di suo nonno. Quasi la riapertura di un cerchio.

Moreni

Mattia Moreni, Paesaggio con apparizione, 1962 – Archivio Pagnani

Pagnani

Pagnani con il passavivande di Moreni