MA ALICE NON LO SA / A tu per tu con Andrea Baravelli, grafico mancato e storico affermato, l’anarchia sulla pelle e i servizi segreti nella testa

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“Ognuno deve morire, ma non tutte le morti hanno lo stesso significato” (dal film “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio). In occasione dell’uscita del film di Marco Bellocchio “Esterno notte” (proiettato in anteprima al Festival di Cannes) che ripercorre, attraverso i punti di vista di vari personaggi, i 55 giorni del sequestro Moro, rapito dalle Brigate Rosse in Via Fani il 16 marzo 1978, ho chiesto un incontro allo storico ravennate Andrea Baravelli, che si è occupato in varie pubblicazioni di temi come il terrorismo e gli anni di piombo. Abbiamo ripercorso insieme alcune tappe fondamentali della “Notte della Repubblica”, per citare la celebre inchiesta di Sergio Zavoli.

Andrea Baravelli è nato a Ravenna nel 1969, storico, professore associato di storia contemporanea all’Università di Ferrara, ha fatto parte della Commissione per la candidatura di Ravenna Capitale europea della Cultura 2019, che definisce “una bellissima esperienza, molto formativa”. Ha frequentato gli ambienti politici del PD per un certo periodo, è membro della Fondazione Istituto Gramsci dell’Emilia-Romagna e Direttore scientifico del Fondo Balbo all’Istituto di storia contemporanea a Ferrara. È anche papà di tre figli avuti con l’ex moglie Ilaria Cerioli, scrittrice e insegnante. Insieme hanno scritto il libro “Il viaggio di Ausonia”.

Andrea Baravelli

L’INTERVISTA

Professor Baravelli, è uscita in questi giorni nelle sale la prima parte di “Esterno notte” che ripercorre i 55 giorni del sequestro Moro. Marco Bellocchio aveva già fatto un film su Moro: “ Buongiorno, notte”. Vogliamo partire da questo?

“Io di Buongiorno, notte di solito faccio vedere la scena finale ai miei studenti, in cui Bellocchio immagina un finale alternativo rispetto a come sono andate le cose. Cioè la brigatista Faranda libera dalla prigionia il Presidente Moro interpretato da Roberto Herlitzka (in “Esterno notte” Moro è interpretato invece da un magistrale Fabrizio Gifuni, ndr), che si incammina verso la libertà sulle note di Shine on you crazy diamond dei Pink Floyd. Pur essendo una rivisitazione artistica, dal punto di vista storico fornisce spunti per ragionamenti molto interessanti.”

Il Presidente Moro poteva essere salvato secondo lei? O meglio: c’è qualcuno che non lo voleva salvare? Quale è stato (se c’è stato) il ruolo dei servizi segreti?

“Moro era una risorsa per tutto il panorama politico di quei tempi ed è mia convinzione che la vulgata secondo cui Cossiga e Andreotti se ne volessero “sbarazzare” sia priva di fondamento. Chi probabilmente ha ostacolato le operazioni e i tentativi per salvargli la vita furono i servizi segreti. Moro era interprete di una linea politica molto avanzata e strategicamente molto rilevante.”

Intende il “compromesso storico” che prevedeva un appoggio esterno del PCI al governo Andreotti?

“Sì, quello dell’appoggio esterno doveva essere il primo step di un percorso volto a creare le condizioni per mettere in atto un sistema politico fondato sul principio dell’alternanza, sdoganando la possibilità di governare anche ai partiti a destra o a sinistra della DC. Un sistema politico maturo, secondo Moro, avrebbe dovuto prevedere la possibilità delle alternanze politiche, cosa che per “qualcuno” non si poteva e doveva fare.”

In Via Fani erano presenti altri oltre alle Brigate rosse?

“Ci sono state tre commissioni parlamentari su questo… Secondo me è probabile che al di là della presenza fisica o meno al momento del rapimento in Via Fani, i servizi segreti abbiano avuto un ruolo ben preciso in questa vicenda, cercando di ostacolare in vari modi la possibilità che Moro venisse liberato.”

Perché?

“I servizi segreti dalla metà degli anni ’70 fino alla metà degli anni ’80 hanno avuto un ruolo attivo in molte pagine dolorose della storia del nostro paese.”

La strategia della tensione?

“La fase della strategia della tensione era stata messa in atto negli anni precedenti. Sin dalla nascita della nostra Repubblica i servizi segreti si sono immedesimati nel compito principale che non era la difesa della Repubblica, ma la difesa dell’appartenenza dell’Italia al patto atlantico. Nella seconda parte degli anni ’70 si entra in una fase successiva, in cui una parte importante dei servizi segreti viene infiltrata dalla P2, che garantiva i rapporti con la parte più oltranzista della Nato.”

Parliamo di Gladio?

“Sì, Gladio era stata creata in funzione di queste finalità.”

E gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo in tutto questo?

“Molti documenti testimoniano che gli USA hanno cercato in realtà di stare fuori da queste dinamiche, limitandosi a dare il supporto che il Governo italiano chiedeva.”

E non avevano problemi sul fatto che il PCI venisse in qualche modo sdoganato con il compromesso storico?

“In realtà, a differenza di certe narrazioni volte a immaginare gli americani terrorizzati dal fatto che i comunisti entrassero nel governo, le vere preoccupazioni degli americani nella seconda metà degli anni ’70 riguardavano le crisi economiche. Li preoccupava la possibilità che l’Italia piombasse nel disastro economico. Di fronte all’ipotesi di una crisi economica, loro addirittura ritenevano che l’appoggio esterno dei comunisti al governo DC fosse indispensabile. Erano favorevoli all’idea di un Partito Comunista, che seppur non di fatto al governo, contribuisse in modo fondamentale e costruttivo insieme alla DC a tenere basso il costo del lavoro e a mantenere la pace sociale. Tutte le ricostruzioni che vedono gli americani come soggetti interessati a impedire che venisse salvato Moro, sono ricostruzioni sbagliate.”

Questo passaggio è molto importante per spazzare via fantomatiche dietrologie che dipingono gli americani come parte attiva se non addirittura grandi burattinai del rapimento di Moro. Quando lei parlava del ruolo dei servizi italiani nell’ostacolare la liberazione di Moro, se ho capito bene, si riferiva a settori di servizi iperatlantisti ma non eterodiretti dagli USA. Giusto?

“Esatto, questi servizi deviati hanno deciso autonomamente senza intromissioni esterne di accomunare i propri interessi a quelli della P2.”

Cosa hanno rappresentato quei 55 giorni del sequestro Moro per il nostro Paese?

“Sono stati il fallimento clamoroso della Repubblica, rispetto al tentativo di salvare la personalità politica più importante che esisteva in quel momento, una clamorosa dimostrazione di inefficacia.”

Ma lei ribadisce che non concorda con la tesi che una parte della DC non volesse salvare Moro.

“Io penso che tutti nella DC volessero salvare Moro. Poi c’erano correnti del partito che volevano salvarlo ma non erano disposti a tutto per salvarlo, e altri che pur di salvarlo erano disposti a tutto. Questo è il modo corretto di porre il ragionamento. Ma dire che nella DC c’era chi non lo voleva salvare non risponde a verità.”

Anche il Vaticano si attivò per portare avanti una trattativa con le Brigate rosse.

“Certo, Paolo VI svolse un’intensa attività in questo senso anche valutando l’ipotesi concreta di pagare un riscatto consistente.”

E secondo lei come mai questa trattativa del Vaticano non andò a buon fine? Chi poteva essere più potente e influente del Papa e del Vaticano?

“Prima di tutto bisogna togliere dal campo tutte le teorie che sostengono che le Brigate rosse fossero eterodirette, pupazzi manovrati da entità esterne. Le BR avevano una loro strategia, per loro il rapimento di Moro aveva innanzi tutto una funzione propagandistica. Secondo la ricostruzione che fa Miguel Gotor nel “Memoriale della Repubblica” analizzando filologicamente fonti e documenti emerge come l’ipotesi della liberazione di Moro in realtà non sia mai stata presa concretamente in considerazione dalle BR sin dall’inizio. Per loro il sequestro Moro era un’operazione di propaganda, una dimostrazione di efficienza bellica, di capacità di tenere in scacco un paese attaccando il cuore dello stato.”

Ma così ne facevano un martire, a questo non avevano pensato?

“Ma è proprio questo il punto: dobbiamo uscire dalla nostra prospettiva e cercare di entrare nella modalità di come ragionavano i brigatisti. C’è una bellissima scena di Buongiorno notte in cui i brigatisti seduti sul divano guardano in tv i funerali della scorta di Moro, e l’attore che interpreta Prospero Gallinari, vedendo che erano presenti degli operai che piangevano al funerale, si chiede “Ma come è possibile? Questo significa che non stiamo facendo la cosa giusta?” Moretti gli risponde: “Stanno mentendo”. In questa frase di Moretti c’è tutto l’autoinganno di cui erano intrise le Brigate rosse, la vita in clandestinità, la loro ideologia totalizzante li portava a vedere la realtà in maniera distorta, vivevano in una loro realtà artificiale, e in questa loro prospettiva il sequestro Moro era prima di tutto funzionale al loro progetto di propaganda armata. Questo è provato dal fatto che durante gli interrogatori non sapevano nemmeno che domande fargli, si tratta di interrogatori molto banali e deludenti, che dimostrano una totale incapacità a rivolgergli domande ‘importanti’. Per esempio fu lo stesso Moro che autonomamente decise di rivelare ai suoi carcerieri alcune cose, tra cui il progetto Gladio, di cui loro ignoravano totalmente l’esistenza.”

E come mai Moro decise spontaneamente di parlare di Gladio?

“Ne parla per fare arrivare un messaggio trasversale ai suoi compagni di partito, perché capissero che se non avessero fatto di tutto per salvarlo lui avrebbe rilevato dei segreti compromettenti per loro. Moro voleva vivere.”

Quindi proviamo a mettere in fila alcuni punti: le Brigate rosse erano un soggetto autonomo e non eterodiretto, al contempo però ci furono altri attori che contribuirono a ostacolare i vari tentativi di salvare la vita di Moro, e cioè parte dei servizi segreti deviati che agivano in accordo con la P2. Corretto?

“Sì, le BR hanno ideato e attuato il sequestro Moro autonomamente, poi altre forze in campo si mossero facendo di tutto per non trovarlo e liberarlo.”

Andrea Baravelli

Un’altra ferita indelebile della storia del nostro paese è costituita dalla strage di Bologna. Si sa tutto di questa pagina terribile o ci sono ancora zone d’ombra e opacità che non sono state ancora chiarite del tutto?

“Dal punto di vista storico sappiamo tutto delle stragi avvenute in Italia a partire dal 1969, però in alcuni casi verità storica e verità giudiziaria non è detto che coincidano…”

Quando dice ‘sappiamo tutto’ cosa intende nello specifico?

“Sappiamo che la strage alla Banca dell’Agricoltura nel 1969 va inserita nel quadro della strategia della tensione, fatta appositamente per stabilizzare il sistema politico tramite la destabilizzazione dell’opinione pubblica. A ordire il depistaggio della strage fu Federico D’Amato, che era il capo del servizio segreto della polizia (l’Ufficio affari riservati). Depistaggio che cercò di attribuire alla strage una matrice anarchica (il famoso caso di Pinelli “volato” dalla finestra dell’ufficio del Commissario Calabresi per intenderci: la “morte accidentale di un anarchico” raccontata da Dario Fo) per influenzare l’opinione pubblica portandola a votare i partiti d’ordine come la DC e l’MSI.”

La strage alla Banca dell’Agricoltura inaugura la stagione oscura delle stragi di stato. Nel 1980 quando avvenne la strage alla stazione di Bologna in che fase siamo?

“Gli autori materiali furono Mambro e Fioravanti dei NAR che provenivano da un mondo fascista estremista molto diverso da quello del 1969. Si tratta di un estremismo identitario, li definirei “fascisti esistenziali”, non hanno come fine la svolta autoritaria, non hanno obiettivi politici ma sono mossi dall’esigenza di ricompattare il fronte dell’estrema destra attraverso la violenza. Questo stando a quanto è emerso durante il primo processo. Nel secondo processo emerge che la strage è realizzata da Mambro e Fioravanti, che però vengono inquadrati in uno scenario di fascisti “a libro paga”.”

A libro paga di chi?

“Di Licio Gelli, della Massoneria segreta, di parti dei servizi facenti capo a D’Amato. Gelli era quello che metteva i soldi e faceva da collettore di questo coacervo di interessi reazionari.”

Ma nel piano di Gelli il fine ultimo doveva essere la realizzazione di un colpo di stato?

“No, il fine ultimo era mandare un segnale al mondo politico. Erano gli anni del primo governo Spadolini, un governo repubblicano, laico, economicamente legato a Confindustria in virtù di una precisa volontà di dare maggiore libertà alle forze confindustriali, limitando fortemente l’intromissione e il controllo da parte dello stato nelle dinamiche economiche. Gelli attraverso le stragi voleva mandare un segnale per fermare questa tendenza.”

Lei si è occupato anche dell’affaire “Blue moon”, ci spiega in cosa consiste questa teoria?

“Il generale Westmoreland, capo di stato maggiore americano negli anni Sessanta fu il principale sponsor della teoria della controrivoluzione preventiva, che postulava la necessità, in considerazione dell’abilità sovietica nel manipolare le democrazie occidentali europee, di avallare operazioni non convenzionali (colpi di stato, rafforzamento delle strutture clandestine di resistenza, uso dei gruppi neofascisti come manovalanza, operazioni psicologiche e terroriste volte a terrorizzare le opinioni pubbliche per indurre riflessi condizionati di richiesta di maggiore ordine, ecc.). Tra le tante iniziative messe in campo, anche se mai realmente provata (ci sono tanti indizi, ma mancano prove vere), c’è l’operazione Blue moon, che per l’appunto teorizzava lo scardinamento della contestazione giovanile attraverso la diffusione di droghe. Non so se sia mai andata oltre lo stadio di progetto (di progetti tutti ne fanno migliaia, poi si tratta di vedere se vengono applicati). Invece l’operazione Chaos, volta ad attivare nuclei neofascisti, per mettere bombe da attribuire alla sinistra, è attestata dalle fonti documentali.”

Lei è mai stato contattato dai servizi in qualità di consulente? Magari lo è stato ma mi direbbe comunque di no…

“No, non sono mai stato contattato.”

E nel caso glielo proponessero lei rifiuterebbe?

“Non rifiuterei a priori, molti miei colleghi l’hanno fatto, però chi svolge questa mansione deve trasferirsi necessariamente a Roma, perché gli archivi dell’amministrazione centrale dello stato sono tutti conservati lì.”

Be’ si potrebbe trasferire a Roma magari…

“Ma no il mio lavoro è a Ferrara! (sorride, ndr)”

Parlando un po’ della sua sfera personale, lei ha tre figli, chi le assomiglia di più dei tre?

“Per il lato dell’estrosità forse la più piccola, Olimpia, che ha 14 anni.”

Pensa che qualcuno dei tre seguirà le sue orme intraprendendo la carriera di storico o storica?

“No. Pietro il più grande ha sempre avuto un’ottima capacità storica ma poi ha scelto di fare scienze motorie.”

Andrea Baravelli

Riguardo la politica, lei per un certo periodo ha militato nel Pd. Attualmente qual è secondo lei la criticità più grande della sinistra italiana e un lato positivo invece? Una cosa da buttare e una da salvare in pratica.

“La sinistra non dispone più del linguaggio per fare analisi, raccontare la complessità del mondo attuale e quindi per proporre soluzioni. Non ha un linguaggio per leggere il presente, veniamo da 30 anni di egemonia neoliberale, e il linguaggio legato tradizionalmente alla sinistra marxista è superato.”

È come se tra le parole e le cose non ci fosse più corrispondenza in un certo senso…

“Si ha la percezione di tante cose che si impongono per la loro urgenza ma non le si sa nemmeno nominare.”

Questo è un problema gigantesco.

“Come diceva Wittgenstein sopra ciò di cui non si può parlare si deve tacere, e però tacere su certe cose è una sconfitta su tutta la linea…”

Una cosa positiva invece?

“Nella sinistra italiana c’è una forte vicinanza al sentiment delle giovani generazioni, e anche sui diritti civili è molto avanti.”

Quindi sui diritti civili siamo sulla buona strada ma sui diritti sociali e del lavoro siamo molto indietro. È così?

“Sì, siamo indietro anni luce perché non sappiamo come rimpiazzare il ruolo dello stato. Lo stato per la sinistra ha sempre avuto la funzione di redistributore. Adesso anche una misura che attribuisce un sussidio a chi non ha un lavoro come il reddito di cittadinanza viene definita una misura “assistenzialistica”. Ma già nel momento in cui usiamo il termine assistenzialistico cadiamo nell’ottica del neo liberismo egemonico. A parte che chi l’ha detto che lo stato non debba svolgere anche una funzione assistenziale? Perché lo stato deve per forza ragionare in termini di logica di profitto economico come se fosse un’azienda? Lo stato deve avere come primo obiettivo il mantenimento della coesione sociale, non deve essere ossessionato dall’economia. Trent’anni di globalizzazione hanno fatto saltare i cardini che hanno sempre permesso allo stato di svolgere un’attività redistributiva.”

Se non avesse fatto lo storico che mestiere avrebbe fatto?

“Il grafico pubblicitario.”

I suoi tatuaggi li ha disegnati lei?

“Sì, questo sull’avambraccio è un simbolo anarchico, la fiaccola rappresenta la fiaccola dell’anarchia.”

È più facile insegnare ai suoi studenti o ai suoi figli?

“Ai miei figli.”

Veronica Quarti, sua allieva, in un’intervista mi disse che al suo corso ebbe quasi un’illuminazione…

“Sì, perché sono bravo! (ride, ndr). Ma gli studenti come Veronica sono una minoranza…”

Che rapporto ha con l’autorità?

“Sono convinto che ogni ambiente ha un codice di regole da rispettare che sono sia sostanziali che formali, e bisogna saper esercitare l’autorità laddove necessario.”

Qual è secondo lei il difetto più grande degli intellettuali italiani? Un certo elitarismo, forse?

“Il primo difetto è una scarsa apertura nei confronti dell’esterno, degli altri paesi. Una forma di chiusura autoreferenziale e l’elitarismo derivano dal fatto che noi non abbiamo un ascensore sociale, chi fa l’intellettuale può farlo spesso perché porta un certo cognome. E poi c’è un certo atteggiamento di chiusura verso la società che porta al rischio di chiudersi nella famosa torre d’avorio.”

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