MA ALICE NON LO SA / Maria Vittoria Baravelli, art sharer e divulgatrice di grazia, perché l’opera d’arte “è un frammento di eternità”

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Nel 2016 ho creato la parola Art Sharer – ‘colei che condivide l’arte’ – ad indicare la mia necessità di raccontare l’arte e la cultura alle nuove generazioni perché nulla del nostro patrimonio identitario vada dimenticato. In realtà oramai è divenuto un lavoro e molte persone utilizzano la stessa parola per definirsi. (sono) una divulgatrice culturale un po’ particolare che utilizza i social e nello specifico Instagram come piattaforma per entusiasmare persone che forse non si sarebbero avvicinate ad un libro classico, ad un museo oppure ad una mostra di fotografie. Ed effettivamente alle persone piaccio, piace il mio essere reale e virtuale. Innamorata della lettura, onnivora e curiosa eppure al passo con i tempi, in grado di unire aspetti vicini apparentemente molto lontani” (cit. Maria Vittoria Baravelli).

Una frase di Marguerite Yourcenar in cui mi sono sempre riconosciuta dice che la nostra prima patria sono i libri che abbiamo letto. Siamo le parole che sappiamo esprimere o che decidiamo coscientemente di tacere. Per questo credo sia bellissimo regalare a qualcuno un libro, un mondo fatto di lettere e di parole sempre pronto ad aspettarti” (cit. Maria Vittoria Baravelli).

Viviamo in tempi in cui chiunque abbia un account sui social può pubblicare contenuti e storie di qualsiasi genere. È qualcosa di rivoluzionario. Mai successo nella storia. Non importa se sei ricco o povero, se hai studiato nelle migliori scuole o sei cresciuto per le strade di una periferia: è la cosa più democratica che sia mai esistita, sui social le gerarchie economiche, sociali, culturali, che condizionano la vita nel mondo reale, sono azzerate, perché con un solo post che diventa virale puoi diventare da un giorno all’altro il personaggio più conosciuto e seguito del momento (naturalmente sappiamo anche degli inconvenienti del caso, ma qui soprassediamo). Poi nella maggior parte dei casi la popolarità sui social svanisce con la stessa rapidità con cui era arrivata. Come diceva Warhol, quindici minuti di celebrità non si negano a nessuno.

Ci sono persone poi che hanno qualcosa in più, che sanno usare i social in modo intelligente, per comunicare contenuti di qualità, per divulgare le proprie competenze e i propri talenti, consapevoli che per quanto siano uno strumento potentissimo, restano pur sempre uno strumento. Se non sai suonare puoi avere in mano anche la chitarra migliore del mondo, ma questo non ti rende automaticamente Jimi Hendrix. Ma dai la stessa chitarra a chi sa suonarla, ed ecco che si apriranno le danze. E se la tua musica è buona, i follower non li devi cercare, ma saranno loro a trovarti attirati dalla melodia. Devi essere il faro, non la falena. È il mondo dei social, bellezza, dove tutti possono essere eroi, anche solo per un giorno. Ma in un mondo dove puoi indossare una maschera e far finta di essere qualcuno che non sei, alla fine cosa c’è di più liberatorio, appagante e rivoluzionario di scegliere di essere semplicemente ciò che sei?

Oggi parliamo di social, di arte e di molto altro con Maria Vittoria Baravelli, che su questi temi ha un sacco di cose interessanti da condividere con noi. Con la sua voce flautata e una irresistibile erre moscia, mi ha accompagnato per mano nel suo mondo e il tempo è volato. Sarei stata ad ascoltarla per ore. Ed ora ve la presento, buona lettura!

Maria Vittoria Baravelli

L’INTERVISTA

Maria Vittoria Baravelli, lei è nata a Ravenna nel 1993. Ha frequentato il Liceo scientifico a Ravenna e poi si è trasferita a Milano (dove vive tutt’ora) iscrivendosi alla Facoltà di lettere moderne, dato il suo amore per le letterature e per le storie del mondo! Perché Milano?

Ho scelto Milano perché tra tutte le città italiane mi sembrava quella un po’ più vicina a quelle europee. Una città metropolitana che non mi ha fatto sentire mai sola. Tutto è una condivisione costante. Una rete a cui non puoi e non vuoi sottrarti”.

Nel 2016 ha inventato il termine art sharer, oggi entrato nella lingua comune e sempre più riconosciuto e usato. Maria Vittoria, cosa vuol dire essere una art sharer?

“In un mondo in cui tutto vale se viene comunicato bene io ho sempre pensato che fosse incredibilmente interessante comunicare la cultura in modo semplice ma mai banale. Quando ero ragazzina e andavo nei musei o alle mostre avevo come la sensazione che il mondo dell’arte fosse respingente, era come avvolto da un’aura e quella ci sta, dato che intrattiene un rapporto speciale con l’eternità, ma quando l’élite e la nicchia diventano sempre più autoreferenziali allora si potrebbe più propriamente parlare di loculo (ride, ndr). Ho sempre avuto la passione per la letteratura che consiste nel creare e nel far esistere mondi attraverso le parole, mondi che continuano a esistere anche quando il libro è finito. Mi sembrava un modo molto interessante, intrigante e complesso di percepire la nostra esistenza nella sua totalità. Inizialmente mi sono concentrata più sulla letteratura rispetto alla storia dell’arte. Un libro crea un mondo che può non esistere e le opere d’arte invece sono mondi che esistono, qualcosa di incredibilmente reale, sono frammenti di un essere umano che sopravvivono, e mi affascina questo concetto di eternità. L’opera d’arte è un frammento di eternità che supera il concetto stesso di morte.”

Che differenza c’è tra art sharer e influencer d’arte?

“Quando sono nati i social, in particolare Instagram è nata anche la categoria di influencer, ma non esisteva però la figura di influencer d’arte. Io sono stata tra le prime insieme a poche altre a cui è stata attribuita questa definizione. Nel 2018 quando partecipai al programma di Alberto D’Onofrio “Giovani e influencer” su Rai 2, io ero stata inserita nel gruppo in qualità di giovane e non di influencer. Non avevo una community oceanica. In realtà, però, dal 2026 portavo avanti questa mia battaglia, questo mio credo dell’Art Sharing. Partendo dal detto americano “sharing is caring” e ciò che condividere è poter avere cura, è saper far durare e non permettere che qualcosa del nostro passato indentitario sia disperso. Avere cura, rispetto, attenzione per il mantenimento e la conservazione del nostro patrimonio artistico (quello che all’estero chiamano heritage). Prima di poter creare qualcosa di nuovo bisogna maturare una profonda conoscenza del nostro patrimonio, inteso proprio come “ciò che i nostri padri ci hanno lasciato”. Mi interessava la condivisione dei contenuti artistici attraverso i social, ma il termine influencer mi stava stretto e non rispecchiava nel modo corretto l’intento che mi animava. I totalitarismi e il 1900 ci hanno insegnato quanto sia importante non lasciarsi influenzare, per questo la parola influencer legata al mondo della cultura trovo sia concettualmente non appropriata, perché influenzare significa esercitare una forza su qualcuno che non si può difendere. Anche se molti continuano a chiamarmi influencer, io ho creato una nuova parola che rispecchia meglio ciò che faccio e cioè art sharer. L’aver coniato questo termine che è diventato di uso comune è per me motivo di grande orgoglio. Poi ognuno mi chiamasse come meglio ritiene opportuno, visto che noi esistiamo anche in base a quello che dicono gli altri di noi. Il mio obiettivo era raccontare una cultura accademica alle nuove generazioni ma in maniera semplice, una delle prime proposte di lavoro che ho ricevuto in tal senso mi è arrivata da Facebook Italia, il mio ruolo era proprio fare da tramite, da divulgatrice e mettere in relazione il mondo dell’impresa e il mondo dell’arte, coniugando la complessità dei contenuti alla necessità di un linguaggio di facile comprensione e tale da potere essere fruibile in ambiti come il marketing e il settore pubblicitario.”

Maria Vittoria Baravelli

A questo proposito si è molto parlato della scelta (che è stata oggetto di polemiche e critiche) del Direttore degli Uffizi che per avvicinare e coinvolgere un pubblico più vasto ha scelto come sponsor figure “pop” come Chiara Ferragni e Dua Lipa. Lei cosa pensa di questo tipo di operazione?

“Queste figure consentono di rivolgersi a un pubblico oceanico, gli Uffizi come tutti gli altri musei sono inevitabilmente un brand, quindi avvalersi di personaggi con milioni di follower per promuovere un museo è una scelta non solo legittima, ma vincente. L’importante è far sì che le scelte di inclusione di nuovi pubblici non sgretolino il pubblico già consolidato.”

Molti ritengono che la parola brand sia una parolaccia, ma questa mentalità è la stessa che descriveva lei quando ha parlato del rischio che si corre a voler circoscrivere il mondo dell’arte entro i ristretti confini di una nicchia, che poi da nicchia a loculo il passo è breve…

“È una mentalità da rivedere a mio modo di vedere. Una mentalità che rischia di far dei gran danni. Se guardiamo semplicemente il nostro passato vediamo grandi famiglie e la chiesa stessa si sono posti come grandi mecenati e finanziatori di opere che sono tutt’ora straordinarie. Quindi con tutte le dovute differenze, i concetti di mercato e di sponsorizzazioni legate al mondo dell’arte sono sempre esistiti.”

Non si è ancora superata la tendenza a demonizzare i termini brand, marketing associati al mondo della cultura, secondo lei perché?

“Questo in Italia, non all’estero. In Italia in generale è molto difficile uscire dai fasti del passato, anche se per fortuna ci sono anche nel nostro paese molte realtà che cercano di sfuggire a queste limitazioni. Io amo le unioni tra passato e presente ma sempre alla ricerca del futuro. Quando David Bowie andò a Venezia definì Tintoretto “una proto-rockstar”. Perché aveva colto elementi e aspetti della contemporaneità nel passato. In che modo il passato è così presente? Faccio un esempio: anche correnti artistiche contemporanee come la street art e lo stencil (le maschere normografiche per riprodurre forme, simboli e disegni, ndr) hanno radici che affondano in tempi lontani. I primi stencil vennero fatti nelle grotte, quelle che prendono il nome di pitture rupestri migliaia di anni fa, quando gli uomini primitivi appoggiavano la mano sulla parete della grotta e spruzzavano un estratto ricavato da alcune piante in modo che restasse impressa la forma della mano: era il selfie preistorico. L’uomo ha sempre avuto la necessità di rappresentarsi, di lasciare un segno di sé nel mondo. La mano era per loro ciò che permetteva di cacciare, di costruire. Così come oggi noi siamo la nostra immagine, il viso è la cosa che ci connota maggiormente, l’80% delle immagini che vediamo e pubblichiamo sono facce. Ci hai fatto caso?”

Forse qui nasce un misunderstanding, laddove alcuni associano alla parola e al concetto di immagine, qualcosa di superficiale e in contrasto con ciò che invece è inteso come sostanza. Ma non è detto che forma e sostanza debbano essere per forza in contrasto, o che saper cogliere e valorizzare la bellezza di un’immagine (l’impatto visivo) impedisca di indagarne al contempo l’essenza più profonda. Lei che ne pensa?

“Noi esseri umani ci rapportiamo al mondo attraverso i nostri 5 sensi, il senso che ha cannibalizzato tutti gli altri è la vista, al punto che certe correnti filosofiche hanno sostenuto che “una cosa esiste nella misura in cui noi la vediamo”. Qui poi si potrebbe aprire una riflessione sulla differenza tra fotografia e opera d’arte…”

Ci accenni qualcosa a riguardo…

“Si pensa falsamente che la fotografia ci restituisca una rappresentazione del reale più fedele rispetto a un’opera d’arte. Non è un caso che il Movimento Impressionista sia nato a fine ‘800 inizi ‘900: la fotografia ha sdoganato la possibilità per l’arte di non dover per forza rappresentare la realtà così com’era. Facciamo un esempio: se guardiamo una fotografia di Guernica, vediamo una cittadina distrutta, poi noi sappiamo che è stata distrutta dalla guerra, ma in via ipotetica potrebbe essere stata distrutta da una catastrofe naturale, da un terremoto. La foto di quei ruderi non ci trasmette la potenza demolitrice e demoniaca della guerra, che invece ci trasmette il quadro di Picasso. In questo senso l’opera d’arte ci restituisce una rappresentazione della realtà più autentica di una foto. L’arte in generale non è mai uno specchio che rappresenta la società, ma è il filtro che interpreta la realtà stessa.”

Maria Vittoria Baravelli

Quali sono i progetti più importanti che ha seguito?

“Io trovo affascinantissimo il lavoro volto a stabilire un dialogo tra il mondo dell’impresa e il mondo dell’arte, il modo in cui le imprese utilizzano il linguaggio dell’arte per raccontare i valori del brand stesso, riuscendo in questo modo a raggiungere un pubblico più vasto. L’anno scorso ho curato per Barilla il progetto “Grani d’Autore” che prevedeva l’allestimento di una mostra che esponeva opere di illustratori veri e propri artisti. La mostra è stata ospitata in luoghi di altissimo profilo istituzionale come Palazzo Madama a Torino, anche se ha inaugurato alla Triennale di Milano. Questa è stata per me un’esperienza straordinaria. Quest’anno invece sono stata impegnata in un altro progetto interessante; ho avuto la possibilità di occuparmi della valorizzazione di uno degli archivi storici di Mondadori – Mondadori portfolio – che è l’agenzia fotografica del gruppo Mondadori e gestisce tutto il patrimonio di immagini pubblicate da Mondadori nel corso del tempo in riviste e giornali. Ho curato la mostra di fotografie di Marisa Rastellini “Uno sguardo gentile”. Questa donna negli anni ’60 ha lavorato per le riviste “Grazia” ed “Epoca” fotografando i personaggi più illustri del cinema, del teatro, della letteratura di quegli anni, da Pasolini a Dacia Maraini, da Sandra Milo, a Mastroianni , da Elsa Morante col suo gatto a Moravia col suo cane, ritraendoli nella loro dimensione più intima e domestica e spogliandoli della loro iconicità con grazia, eleganza e pudore. Era una fotografa negli anni in cui si stava affermando la figura del paparazzo, perennemente a caccia di scatti rubati della celebrità di turno. Marisa Rastellini nell’unica intervista che abbiamo a disposizione dice che quando fotografava una persona era attraversata da un conflitto interiore, tra la voglia di conoscere e svelare e la necessità di mantenere allo stesso tempo una certa dose di mistero, nel rispetto di un approccio di inviolabilità dell’altro, mi permetterai di dire squisitamente femminile.”

A proposito di paparazzi e scatti rubati, cosa pensa della foto pubblicata da una rivista di gossip di Vanessa Incontrada al mare col chiaro intento di ridicolizzarla al punto che si è giustamente (a mio avviso) parlato di atto di body shaming?

“È una questione complessa perché lei stessa ricordo che aveva fatto una copertina in cui si dichiarava orgogliosa di essere curvy, dicendo di essere in armonia con la sua fisicità.”

Quindi secondo lei è stata un’operazione giornalistica legittima?

“Io penso che prima ancora del legittimo / illegittimo ci sia la questione del buon senso. Conosco fotografi che hanno fotografato star per tutta la vita ma laddove erano in possesso di foto di questi personaggi malati o invecchiati hanno ritenuto di non pubblicare le immagini. Dipende tutto dalla sensibilità, dall’etica e dal buon senso del fotografo. Laddove questo non basti nelle sedi idonee si discuterà l’accaduto.”

E sul tema body shaming in generale che dice?

“Io scrissi un articolo su questo tema partendo da una riflessione sulle opere di Botero, che rappresentano corpi femminili dalle forme morbide.”

Ma nelle opere di Botero non c’era alcun intento denigratorio o di ridicolizzazione però, giusto?

“No, al contrario le sue opere sono un inno alla diversità, alla valorizzazione dei corpi che oggi definiamo “curvy”. Bisogna partire dal presupposto che il nostro corpo è ciò che ci rende unici, e il concetto di corpo è stato utilizzato dagli artisti per convogliare concetti più ampi. Giacometti ad esempio con i suoi corpi scheletrici e scarnificati portava avanti una sperimentazione volta a far esistere il corpo per poterlo far scomparire. Botero al contrario amava la morbidezza delle forme. Posto che condanno ogni forma di body shaming, è altrettanto poco sano a mio avviso sdoganare l’eccessivo sovrappeso come una cosa normale quando invece è pericoloso per la salute. Penso che il concetto chiave per affrontare questo tema sia quello di misura “misura est modus in rebus”: esiste una misura nelle cose, come diceva Orazio.”

Torniamo alla sua attività di curatrice e divulgatrice d’arte, altri progetti che ha seguito?

“Sono stata chiamata dalla Fondazione Hermann Nitsch padre dell’azionismo viennese, pioniere della performance art e uno dei padri intellettuali di artisti come Marina Abramovich. Nitsch ha esplorato i confini della libertà dell’artista, è stato molto discusso e più volte censurato, usava il sangue degli animali nelle sue opere, cosa apparentemente macabra e splatter, ma funzionale all’ideale filosofico che lo animava. Lui si poneva la domanda: può il mondo ricominciare da capo? Il ‘900 è stato intriso di morte e violenza, possono gli artisti creare un mondo da zero, liberandolo dalla zavorra dei pesi e delle brutture della storia? Solo una catarsi, un sacrificio (simboleggiato dal sangue) può consentire una rinascita.”

Che legame ha con Ravenna?

“Costante e affettuoso. Sono nel Cda del Mar. Pasolini definì Ravenna “un tappeto orientale” che permette di passare da un secolo all’altro semplicemente attraversando un marciapiede.”

È attrattiva sul piano dell’offerta artistica e culturale?

“Diciamo che ha ancora un grande potenziale inespresso. Due iniziative in particolare hanno assunto un valore nazionale, Ravenna Festival e ScrittuRa festival, organizzato da Cavezzali e Bon. A loro va riconosciuto il merito di aver portato a Ravenna premi Nobel e scrittori che sono incisi nel nostro immaginario collettivo.”

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