ROMAGNA E ROMAGNOLI NEL MONDO / 27 / La nave dei dannati (2): tentativi di ammutinamento, lo sbarco contrastato e la rivolta della Sabinada

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Nel precedente numero della nostra rubrica abbiamo cominciato a raccontare delle decine di condannati politici romagnoli che, nel 1837, scelsero la commutazione della pena detentiva che stavano scontando nel penitenziario del Forte di Civita Castellana in un esilio in Brasile. A loro si aggiunsero emigranti volontari e alcuni familiari, e tutti si prepararono ad affrontare il viaggio oltre-oceanico sulla nave Madonna delle Grazie. E il viaggio e ciò che lo seguì furono tutt’altro che semplici e tranquilli.

Già le operazioni di trasferimento dei detenuti da Civita Castellana a Civitavecchia presentarono difficoltà e richiesero tempi non brevi: ad esse sovrintesero la polizia e l’esercito pontifici, ed avvennero per la via più lunga, passando per Roma, dove gli irrequieti prigionieri vennero fatti sostare divisi in piccoli e sorvegliatissimi gruppi. Lo spostamento durò dal novembre del 1836 al gennaio del 1837. Cinquanta dei deportati provenivano dalle provincie di Bologna e soprattutto di Ravenna e Forlì; quasi tutti erano fra i 19 e i 30 anni; la maggior parte di loro apparteneva a ceti popolari, ed erano stati condannati, a seguito dei moti del 1831-1832, a lunghe pene detentive (parecchi gli ergastolani). La maggior parte erano celibi, e i pochi coniugati si fecero accompagnare nell’esilio da mogli e figli (in tutto, 5 donne e 6 o 7 bambini). Accanto ai prigionieri, come già detto, c’erano poi una quarantina di emigranti volontari, alcuni con famiglie, e fra di essi c’erano alcuni romagnoli. Aggiungendo l’equipaggio, il numero dei passeggeri della Madonna delle Grazie ammontava a circa 135.

Civita Castellana

Il Forte di Civita Castellana oggi

Sia i deportati che gli emigranti volontari si obbligarono a rimborsare al Governo pontificio il prezzo del viaggio (50 scudi a persona, con riduzioni per bambini e ragazzini), oltre ai prestiti che molti di loro avevano ricevuto risultando indigenti. Oltre alle persone, la nave trasportava un singolare carico: alcune centinaia di palle da cannone “inservibili e fuori calibro” che ottimisticamente (e irragionevolmente) le autorità romane pensavano di poter vendere ai brasiliani.

La nave partì dal porto di Civitavecchia, con destinazione Brasile, il 9 febbraio del 1837. Ma mettere insieme su un vascello decine di “sovversivi” romagnoli che già avevano subìto persecuzioni e anni di carcere, con poco o niente da perdere se non la voglia di libertà e di riscatto, era come innescare una bomba. E infatti il viaggio non tardò a presentare grosse difficoltà: giunta in prossimità delle coste spagnole, la Madonna delle Grazie ebbe a sperimentare il primo tentativo di sommossa e dirottamento, tesi a impedire il passaggio dello stretto di Gibilterra. Fallito il primo, ne venne provato un secondo in occasione di un approdo per sosta nell’isola di Tenerife. Le guardie dirette dal capitano Alessandro Cialdi, responsabile della spedizione, riuscirono però a evitare di perdere il controllo della nave.

Civitavecchia

Civitavecchia

Il porto di Civitavecchia in due immagini d’epoca

La traversata durò tantissimo, circa due mesi e mezzo: la Madonna delle Grazie infatti giunse a Salvador de Bahia solo il 22 aprile del 1837. Lì, per via di inadempienze e dissidi tra l’incaricato dell’operazione, Vincenzo Savi, e la Società di colonizzazione brasiliana che l’aveva proposta, si arrivò al punto che sia i deportati, sia i passeggeri che emigravano volontariamente vennero lasciati a loro stessi, privi di ogni mezzo di sussistenza a partire da vitto e ricovero. Per di più, gli italiani dovettero da subito affrontare la forte ostilità dell’opinione pubblica locale, perché si sparse la voce che uno dei tre monaci cappuccini a bordo fosse in realtà, sotto mentite spoglie, il principe Michele di Braganza, pretendente al trono portoghese; inoltre ai locali non piaceva affatto che i nostri compatrioti appena giunti fossero galeotti in fama di facinorosi, che la Società di colonizzazione (la stessa che li aveva “invitati”) non mancò di definire «malfattori e persino assassini», nel tentativo di non anticipare le spese di viaggio e di prima collocazione.

Salvador de Bahia

Il porto di Salvador de Bahia in una immagine d’epoca

Insomma, i nostri conterranei e i loro compagni di viaggio vennero a trovarsi in grande difficoltà, e pressoché impossibilitati a scendere dalla nave. Solo dopo molte insistenze il capitano Cialdi ottenne per loro un alloggio, consistente in prima battuta in poco più di uno spazio sulla nuda terra (poi sostituito da un ricovero vero e proprio) e obbligò il capitano della nave, Salvatore Balsamo, a rifornirli di cibo attingendo alla cambusa di bordo, che ben presto si svuotò. Si cercò di vendere le palle di cannone e addirittura oggetti e suppellettili dell’imbarcazione, ma senza risultati. I nostri compatrioti riuscirono a sopravvivere e a cavarsela solo grazie al soccorrevole intervento di alcuni italiani residenti a Salvador de Bahia. Passato quel momento assai difficile, pian piano a diversi coloni vennero trovate, soprattutto grazie a un italiano colà residente, il ricco commerciante anconetano Carlo Bernardo Sammicheli, una collocazione e un’occupazione.

Ma non era finita qui: molti degli italiani (potremmo dire dei romagnoli, però, visto che lo erano quasi tutti) ex prigionieri politici giunti a Bahia, infatti, non dimentichi dei loro ideali e della loro vocazione “sovversiva”, oltre che gravati da condizioni di indigenza, dopo pochi mesi presero parte alla rivolta indipendentista e repubblicana nota col nome di Sabinada. Il governo imperiale brasiliano tentò di dissuaderli e di “disinnescarne” l’attività offrendosi di farsi carico dei debiti che ancora li gravavano per le spese del viaggio e per i prestiti ricevuti, ma poi le truppe imperiali riuscirono a domare la rivolta che, secondo le autorità locali, aveva visto i nostri conterranei in prima fila. Tra loro, uno venne ucciso, tre furono feriti, 17 vennero arrestati, i restanti riuscirono a sfuggire all’identificazione e al fermo. Furono proprio questi eventi, probabilmente, a far fallire le trattative tra il governo pontificio e quello brasiliano in merito a nuove spedizioni di detenuti da esiliare.

Sabinada

Sabinada

La rivolta nota come “Sabinada”

In seguito, anche a distanza di diversi anni, alcuni dei deportati (o esiliati che dir si voglia) trovarono il modo di tornare in Europa e persino in patria, con grande preoccupazione delle autorità pontificie, che nel 1842 diramarono una circolare ai Legati all’interno, e ai nunzi e consoli all’estero, per esortarli a raddoppiare la vigilanza di fonte al pericolo, assai temuto, del ritorno di esiliati politici dal Brasile e dalle Americhe in generale.

PER APPROFONDIRE

A.M. Ghisalberti, I reclusi di Civita Castellana nelle «Memorie» di Pacifico Giulini, in «Rassegna storica del Risorgimento», XXVII (1940), pp. 707-755 e 829-896.

R. Lefevre, La spedizione dei deportati politici in Brasile nel 1837, in «Strenna dei Romanisti», VII, Roma 1946, pp. 252-255.

E. Lodolini, L’esilio in Brasile dei detenuti politici romani (1837), in «Rassegna storica del Risorgimento», LXV (1978), fasc. 2, pp. 131-171.

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Commenti

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  1. Scritto da valerio b.

    Un altro interessantissimo pezzo di storia dei romagnoli nelle Americhe. Gran bel lavoro di ricerca, complimenti a Baldini.