Ciò che spaventa è fotogenico. Intervista al fotografo Adriano Zanni

Una breve chiacchierata con il fotografo ravennate Adriano Zanni, che presenterà oggi alle 18, al Fargo di via Girolamo Rossi, il suo nuovo volume "Cosa Resta. Racconti d'osservazione", edito da Reclam

Più informazioni su

Forse avete visto le sue foto sul Post.it, senza sapere che si trattava di un vostro concittadino. O forse, come me, lo seguite su Facebook, dove Adriano pubblica ogni giorno sul suo profilo i suoi bianchi e neri spietati e desolanti.

 

Tra poche ore, Adriano Zanni presenterà ufficialmente il suo nuovo volume, Cosa Resta una raccolta di 80 foto edita da Reclam, arricchita dagli interventi di alcuni dei protagonisti della cultura ravennate, come Walter Pretolani, Davide Reviati ed Elettra Stamboulis

 

La raccolta reca un sottotitolo elegante, che dice molto dell’approccio creativo di Zanni: racconti d’osservazione. Queste foto non si vogliono limitare a descrivere, ma s’impegnano a raccontarci qualcosa. A testimoniare, forse, attraverso gli occhi del loro autore. Partiamo da qui.

 

Il tuo libro fotografico s’intitola Cosa resta, e indaga appunto ciò che è rimasto oggi del passato industriale di Ravenna, con un occhio all’estetica di Antonioni e del suo Deserto Rosso. Bene, Adriano, che cosa resta?

“Siamo sempre stati fin troppo inconsapevoli di quello che stavamo lasciando e colpevoli per come lo stavamo lasciando. Oggi restano prevalentemente cicatrici e ricordi. Alcune cicatrici non si rimargineranno più, per altre ci vorrà tempo, molto tempo. Alcuni ricordi sono più dolorosi di altri, ma se ne faremo tesoro potremo avere la possibilità di lasciare qualcosa di buono. Io osservo cosa resta oggi dei tempi passati ed osservo cosa stiamo decidendo di lasciare e tramandare. Ognuno giudichi con i propri occhi.”

 

 

Dalla musica alla fotografia. Mi ricordo di un tuo live al Bronson, forse quasi 10 anni fa. Quando hai iniziato a scattare foto? Qual è il tuo percorso?

“Per fare field recordings (registrazioni ambientali) o fotografie ci vogliono le stesse qualità: servono pazienza, buone scarpe e molta voglia di stare con se stessi. Bisogna essere disposti ad accettare quello che di sé si potrebbe rischiare di scoprire. Ho cominciato sviluppando la mia passione per la ricerca sonora, non ho mai cambiato approccio, ho solo alternato mezzi e strumenti, da cavi e microfoni a lenti e obiettivi, ma sto sempre facendo la stessa cosa.”

 

Hai dei punti di riferimento, dei fotografi che ami più degli altri?

“Mi piace atteggiarmi ed usare una frase che Johnny Cash scrisse in riferimento alle canzoni che diceva di amare e che io utilizzo per parlare delle fotografie che apprezzo: ‘I love songs/photos about: horses, land, judgment day, family, hard times, whiskey, courtship, marriage, adultery, separation, murder, war, prison, rambling, damnation, home, salvation, death, pride, humour, piety, rebellion, patriotism, larceny, determination, tragedy, rowdiness, heartbreak and love, and mothers‘. Più seriamente, credo che le fotografie di paesaggio siano uno dei miei rifugi preferiti.”

 

 

L’assenza del colore ha una ragione precisa nella tua estetica? Perché sei attratto dal bianco e nero?

“Per affrontare la questione occorrerebbe discuterne a lungo: non è un argomento che si può liquidare in quattro e quattr’otto. Mi limito a dire che ne apprezzo il rigore formale ed il fatto che offre meno distrazioni a chi guarda e meno scorciatoie possibili a chi lo esegue.”

 

Ravenna, con la sua scontrosità, con la sua chiusura, è una città fotogenica?

“Tutto è fotogenico: i posti apparentemente insignificanti così come i luoghi spettacolari. Ravenna è piena di luoghi che di solito preferiamo non guardare, anche se stanno di fronte ai nostri occhi tutti i giorni. Quei luoghi siamo noi. La chiusura di Ravenna è congenita e il suo grado di tolleranza verso ogni possibile cambiamento a volte spaventa. E tutto ciò che spaventa, a mio avviso, è maledettamente fotogenico.”

 

 

 

Quali sono, a tuo avviso, le fotografie di questa raccolta che ti sono venute meglio, o a cui sei più legato? Quali sono quelle che ti sono costate più fatica?

“Assolutamente nessuna più di un’altra, sono tutte identiche. Ma ci sono alcune fotografie alle quali sono personalmente più legato, solo perché sono collegabili a ricordi personali o perché sono state scattate in periodi particolari della mia vita. Questi ultimi anni non sono stati facili. Dovendo sceglierne una sola, scelgo questa: è stata scattata con una piccola point-and-shoot dal finestrino della macchina, in via Rotta.

 

 

Che cosa rappresenta?

“I ravennati ricorderanno il cosiddetto ‘edificio degli spazzini’. In quei giorni lo stavano demolendo per far posto alla nuova edilizia residenziale. Il giorno dopo lo storico edificio non esisteva più. Quella foto è in qualche modo simbolica: le macerie della vecchia Ravenna, e alle loro spalle i condomini che avanzano per prenderne il posto. Quello che abbiamo demolito e quello che stiamo lasciando. E si finisce per ritornare al fatidico ‘Cosa resta?‘.”

 

La fotografia è un compromesso fra occhio e realtà. Quanto di te c’è nelle tue foto, e quanto dei luoghi stessi? Cerchi di nascondere il tuo sguardo soggettivo per far risaltare la realtà, o della realtà non ti importa?

“Come per qualunque creatore, in ogni foto che scatto c’è sempre tutto di me. Volente o nolente, consapevolmente o inconsapevolmente, ma credo che ci sia sempre tutto ciò che mi riguarda. Cerco solo di essere sincero, più sincero che posso. Cerco solo di mostrare con sincerità quello che vedo o che mi sembra di vedere. A volte ci riesco, a volte meno. Forse la complessità ed il senso che assumono i luoghi ciò che mostro stanno in chi guarda. Ho la paura che, volendoli ‘definire’, li si possa ridurre.”

 

A cura di Iacopo Gardelli

Più informazioni su