A tu per tu con Carla Baroncelli, femminista verde, in cerca delle parole per vincere il pregiudizio

Il 28 marzo uscirà il suo libro "Ombre di un processo per femminicidio" dedicato al processo per l'assassinio di Giulia Ballestri

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Carla Baroncelli, giornalista e scrittrice in pensione, come ama definirsi, mi accoglie nella sua casa di Via Mazzini in un giorno qualsiasi fra l’8 marzo e il 28 marzo, data in cui uscirà il suo libro “Ombre di un processo per femminicidio”. Sottotitolo, “Dalla parte di Giulia”. La casa è un piccolo labirinto di ambienti che si sviluppano su due lati, ad angolo, su uno stretto cortile. Dove i tre gatti di Carla e Barbara regnano sornioni. Mi fa vedere le stanze con orgoglio, ovunque tracce della coppia, foto, ritratti, libri. Tanti libri.

E molti sono scritti ma non pubblicati, gelosamente custoditi in un armadio. “Quando siamo venute a vivere insieme qui io e Barbara, abbiamo mescolato tutti i nostri libri: quello è stato il momento vero in cui ci siamo sposate” mi dice Carla. I libri, l’amore per la lettura e la letteratura. E le parole. L’ossessione delle parole. Carla le cerca a lungo, con cura, mentre la intervisto, con quella voce un po’ rauca, profonda, antica. Sono parole che soppesa prima di pronunciare, come se cercasse di valutarne tutte le conseguenze una volta dette. Perchè le parole sono importanti, direbbe Nanni Moretti. Di più, sono pietre, come scrive Carlo Levi.

Le parole svelano pregiudizi, stereotipi, preconcetti. Insomma, tutto quello che ci frega e ci inchioda nella vita di tutti i giorni. Che incastra soprattutto le donne. Per questo lei cerca le parole per demistificare, per combattere il pregiudizio, per raccontare un punto di vista altro. Quello delle donne. Sono parole che pesca dalla sua storia, dalle sue letture, dal suo vissuto, dalla sua pratica femminista. Parole scolpite nelle pietre d’inciampo della sua vita, si potrebbe dire. Nell’ultima fase sono segnate dalla lunga e forte esperienza del processo per il femminicidio di Giulia Ballestri a cui Carla Baroncelli si è dedicata anima e corpo per un racconto diverso, da donna. Con esiti emozionanti e sorprendenti.

 

L’INTERVISTA

Carla Baroncelli, sposata due volte. La prima con un uomo. La seconda con una donna.

“Nel mezzo c’è stata anche una storia molto importante con un altro uomo, durata 21 anni.”

Che differenza c’è stata per lei nello sposarsi con un uomo e poi con una donna?

“Nessuna differenza. È una questione di sentimenti che non dipende dal sesso o dall’età. Premetto che io non credo nel matrimonio istituzionale. Comunque, la prima volta, devo dire la verità, mi sono sposata che ero minorenne e l’ho fatto soprattutto perché volevo andare via di casa. Era il 1969, ricordiamo quegli anni. Naturalmente, amavo molto mio marito.”

Anche la prima volta il suo matrimonio è stato quindi un atto politico. Il secondo con Barbara poi è stato un atto pubblico e politico all’ennesima potenza. Il privato è diventato politico tout court, come si diceva negli anni d’oro delle battaglie per i diritti civili.

“La seconda volta è stata prima di tutto la voglia di vivere l’emozione. Quel dire: ci sposiamo. Al di là dell’organizzazione, delle cose da fare. L’importante è stato il desiderio di sposarsi.”

Quindi non crede nell’istituzione matrimonio, però…

“Anche quello con Barbara è stato un matrimonio d’amore e ha avuto una motivazione forte, che ha fatto scatenare la scelta di compiere la cosa. Infatti c’è stata la decisione di sposarci e subito sono arrivate le domande e le risposte: come, dove sposarci? Qui non si può. Ma noi ci siamo dette: vogliamo farlo anche se non si può e così abbiamo fatto una grande festa per la consapevolezza dell’esistenza di questo desiderio, anche se non potevamo sposarci legalmente in Italia. Insomma, volevamo dire a tutti questo desiderio esiste e non si può negare, legge o no.”

 

Un momento della festa del desiderio in Municipio a Ravenna

Quella festa è stata un evento pubblico che ha trovato l’apertura e la complicità delle istituzioni ravennati…

“Sì, anche se il Sindaco Matteucci non ci ha messo la faccia però si è fatto carico di questa cosa, l’ha portata avanti, ed è stato un grande momento secondo me.”

Poi siete andate in Portogallo per sposarvi.

“Sì. Lì è intervenuto un altro fattore. L’idea era di approfittare delle leggi di un altro Paese non come fatto solo privato ma per portare a casa in Italia questa cosa, per poterla raccontare, diffondere, allargare. Quindi, in fin dei conti, sì una differenza c’è stata fra i due matrimoni. Mentre il primo è stato più intimo e privato, il secondo è stato tutto pubblico ed è stato il matrimonio della liberazione.”

A proposito di liberazione e di diritti, fino a qualche anno fa c’era la lotta per le unioni civili e sembrava che, ottenuta quella conquista, nulla fosse più tabù… cioè ci si preparava a ottenere, che so, perfino l’eutanasia. Poi in poco tempo è cambiato tutto e sembra che non solo quella conquista sia ora messa in discussione ma anche l’aborto, il divorzio, l’autodeterminazione della donna… c’è un clima da ritorno al medioevo o esagero? Insomma, qual è lo stato dell’arte sui diritti civili?

“A me piace raccontare. Quindi rispondo raccontando le cose che mi accadono. Quando ci siamo sposate, sono andata al mercato con Barbara, dall’ortolano presso cui facevo sempre la spesa e con cui di solito si scherzava. Fatta la spesa, siccome le buste pesavano, lui mi disse in quella occasione: si faccia aiutare da sua figlia. Io gli risposi: no, guardi, lei è mia moglie. L’ortolano trasecolò e da quella volta è sempre stato molto in punta. Bene, oggi succede una cosa completamente diversa. Quando dico lei è mia moglie o vengo con mia moglie, nessuno alza un sopracciglio oppure si stupisce. Questo significa che un passo avanti culturale è stato fatto. Non basta, ma siamo andati avanti. Anche nei talk show di queste cose non si parla più con un atteggiamento voyeuristico.”

Quindi c’è stato in ogni caso un salto culturale.

“Sì ed è percepibile. Perché le lotte che le donne hanno fatto e stanno facendo, soprattutto le più giovani, contro la violenza, contro le molestie, anche con il movimento MeToo, tutto ciò ha fatto sì che gli uomini abbiano dovuto assumersi più responsabilità dei loro atti, anche passati. Uomini e donne si sono fatti delle domande. Gli uomini si sono interrogati sui loro comportamenti. Le donne si sono chieste quanto hanno dovuto o debbono subire.”

Eppure violenza e sopraffazione sulle donne non calano, anzi…

“Anche i femminicidi sono sempre più efferati e brutali. Il problema è il patriarcato, quella forma di potere basata sulla violenza che regola i rapporti fra gli individui. Non ha niente a che fare con democrazia e dittatura. Contro il patriarcato le donne hanno combattuto per essere riconosciute come individui e persone e hanno ottenuto grandi conquiste, soprattutto dagli anni Sessanta in poi. I consultori, il divorzio, l’aborto. Siamo cresciute.”

Siamo cresciuti tutti con quelle battaglie.

“È vero. Però non abbiamo messo radicalmente in discussione il fondamento della disuguaglianza di genere, non lo abbiamo scalfito a fondo. Le conquiste le vedo quasi fossero delle concessioni. Tant’è che oggi quel patriarcato mai morto, che è continuato a vivere nelle teste delle persone, maschi e femmine, torna a risorgere.”

Insomma, una sorta di revanscismo maschilista.

“Esatto. E risorge con la violenza che gli è tipica. Tanto più grandi sono state le nostre conquiste, tanto più forte è la violenza di quella reazione. Posso dire che non sono pronta per una valutazione complessiva di quello che accade oggi in Italia, se penso poi a questi ultimi casi giuridici…”

Parla di queste due sentenze in cui si dimezzano le pene per femminicidio, prima con la motivazione della tempesta emotiva e poi con quella della grande delusione… come se un uomo in preda a una tempesta emotiva o deluso fosse in qualche modo un poco “scusato” dopo avere ammazzato una donna. Siamo tornati al delitto d’onore?

“C’è anche un altro caso, in cui è stata in qualche modo giustificata la violenza sessuale su una ragazza di Ancona perché ritenuta brutta e mascolina. Siamo alle attenuanti generiche che portano alla diminuzione di pena. Nel codice penale esiste ancora un’attenuante legata alla personalità dell’imputato. Questa è una cosa estremamente preoccupante. Perché se siamo di fronte a personalità tali da arrivare a compiere un omicidio, allora queste personalità andrebbero tenute sotto controllo prima. È la norma che viene quasi assimilata al delitto d’onore e, in effetti, non c’è poi molta differenza.”

La formula, una volta, era l’uomo “ferito nell’onore”.

“Certo. Torniamo al patriarcato, a questa forma di potere che tiene le persone su piani diversi e dà alle persone valori diversi. Non solo il maschio è patriarca, intendiamoci. In certi casi può esserlo anche la donna. Questa forma di potere di una persona sull’altra si basa su tanti strumenti, fra questi la violenza e la sopraffazione. Ma c’è prima di tutto il pregiudizio, lo stereotipo, il disvalore. Fino alle terribili parole di Matteo Cagnoni che dice a proposito di Giulia Ballestri: giustizia è fatta. Lui si è arrogato il diritto di farsi giustizia da solo rispetto alla moglie, che, secondo la sua logica, lo avrebbe disonorato. Il patriarcato si nutre di pregiudizi e stereotipi, gira attorno a quello che crediamo sia o debba essere giusto. Perché ci è stato insegnato. Perché ce l’hanno detto e inculcato in mille maniere. L’uomo deve comandare. I pantaloni li porta il marito. E la donna magari dice: è cattivo, è nervoso perché lavora troppo.”

  

Carla Baroncelli con il suo libro sul processo per il femminicidio di Giulia Ballestri

Ci sono tante donne vittime di questi pregiudizi nel senso che li hanno assunti, consciamente o inconsciamente.

“Io stessa. Tutti.”

Si potrebbe dire che li abbiamo succhiati dal biberon.

“Certo.”

La battaglia culturale è fondamentale.

“Esattamente. A scuola. In famiglia. Sui media. Ovunque.”

Che cosa rappresenta il Disegno di Legge del leghista Pillon e cosa rappresenta questo vento di nuovo integralismo familistico e cristiano che spira sempre più forte nel paese? A Verona si terrà a fine marzo il World Congress of Families, il Congresso Mondiale delle Famiglie promosso dalle associazioni più retrograde e integraliste del mondo e a cui il Governo italiano ha dato il patrocinio: vi parteciperanno anche il vice premier Salvini e il ministro Fontana della Lega.

“Vuol dire che ancora una volta noi donne siamo chiamate a difenderci. Soltanto che c’è una differenza. Oggi le donne consapevoli sono aumentate in numero e in qualità. Per questo è importante partire dalle parole per snidare tutto ciò che è pregiudizio e perpetua il potere patriarcale. Il disegno di legge Pillon vuole con la prepotenza mettere mano alla famiglia, diventa un modo per aggirare divorzi e separazioni, per soffocare la donna nell’espressione delle sue emozioni. Vuol dire togliere la dignità di persona alla donna.”

Per Pillon le donne devono tornare al loro posto. È così?

“Sì, è questo: tornare ad essere subalterne. Ma non so se le donne oggi possano tornare a sedersi al loro posto, dove sono restate per tanto tempo, esattamente come era prima. Le donne reagiranno, lotteranno. Il mio modo di lottare è scrivere. Ognuna lotterà con i propri mezzi.”

Ma che cosa è accaduto? Era già tutto dormiente nella pancia del paese e l’ascesa di una nuova classe politica ha solo dato spazio e visibilità a ideologie regressive, oppure è accaduto qualcosa d’altro, secondo lei? Le paure scatenate dalla globalizzazione c’entrano con queste forme di regressione sui diritti civili?

“Sono passati 70 anni dalla rivoluzione da cui è nata la nostra democrazia. E dopo 70 anni la nostra democrazia sembra lenta, impacciata, incapace di governare la realtà. La globalizzazione con la sua crisi di sovrapproduzione, con la crisi sociale, e con le ondate migratorie ha fatto saltare gli equilibri: la democrazia si è trovata impreparata e gli immigrati arrivati qua sono diventati strumento di chi vuole sconfiggere la democrazia e prendere il potere con un’altra forma, quella del capo che decide per tutti. Ma sappiamo dove può portare il delirio di onnipotenza di un capo. E quel capo vuol riprendersi anche il controllo della famiglia, perché è all’interno della famiglia che nascono e crescono i primi germi degli individui.”

Da qui l’idea di rimettere a posto le donne, in casa.

“Esattamente.”

Nella dinamica dell’opposizione fra élite e popolo, ho l’impressione che la politica dei diritti civili e anche tutto quello che viene definito “politicamente corretto” non siano più di moda. Sono diventati un fiore all’occhiello appannaggio delle élites globaliste, qualcosa di fighetto e superfluo, che dà perfino fastidio al popolo duro e puro nella vulgata populista… da qui una sorta di rigetto. È davvero così?

“Sì. Siamo in una fase rischiosissima da questo punto di vista. Sono molta preoccupata. E non vedo ancora un argine sufficiente a questa onda regressiva.”

È passato nel discorso pubblico il concetto tipico della destra: rinuncio a un pezzo di libertà in cambio di più sicurezza.

“Certo. Io ho lavorato tanti anni in cronaca come giornalista. E si sa come la cronaca oggi sia la base per la formazione del dibattito pubblico e del discorso politico. Tutto nasce dalla cronaca e dall’uso che ne viene fatto. È attraverso la cronaca che viene inculcata la paura nella gente.”

L’impressione è anche che dopo la lunga stagione delle conquiste, le persone più moderne, colte, illuminate e di fede progressista abbiano dato quasi tutto per scontato e abbiano smesso di lottare… dimenticando che quello che si è conquistato una volta si può sempre perdere in fatto di diritti… è quello che sta accadendo oggi secondo lei?

“Sì, chi è nato avendo tutto e non avendolo conquistato, non conosce il vero valore delle cose, questo è il vero rischio. Oggi sottovalutiamo anche il pane quotidiano per esempio. Mentre io sono stata cresciuta con l’idea che dovunque andassi dovevo mettermi un pezzo di pane in tasca, perché era importante. E l’ho fatto, quando lavoravo: dovunque andassi, mi sono sempre portata un pezzo di pane perché è quello il fondamento della vita. Avere quel pezzo di pane mi dà la sicurezza. Oltre a quello che stiamo vivendo, e cioè il tentativo di distruggere ciò che le donne hanno ottenuto, per me c’è ancora di peggio. Sto parlando della tutela dell’ambiente. Questo è un diritto civile che stiamo perdendo tutti. E non a caso sono le donne le prime che combattono per l’acqua.”

Il femminismo e la lotta delle donne sono stati i fattori più dirompenti di emancipazione umana del XX secolo, il movimento che ha fatto scuola in tema di diritti civili. Qual è lo stato dell’arte del femminismo oggi? 

“Io non sono una teorica del femminismo. Sono una persona pratica e il femminismo lo pratico. E oggi dico che la mia sicurezza anche come donna è data dall’ambiente, dall’acqua, dallo stato della terra e della natura sulla terra. Sono molto d’accordo con quello che sta facendo Greta Thunberg.”

La battaglia delle donne e quella per l’ambiente devono andare insieme, quindi?

“Non lo so. Io non so cosa debbono fare le donne. So quello che faccio io. Cioè vado alla manifestazione per il clima e dico ben vengano le mobilitazioni per l’ambiente, ben vengano i giovani, io sto con loro.”

Il movimento “Non una di meno” ha riportato le donne alla lotta, mentre prima…

“Certo. Secondo me ci sono momenti differenti che si alternano. Momenti di riflessione e poi momenti in cui il movimento deflagra, irrompe. Per esempio MeToo. Nei momenti di riflessione io per esempio mi guardo attorno, capisco e cerco anche lì di scoprire dove si annidano in quel frangente i pregiudizi e i preconcetti. Per combatterli. Vale per le donne, vale per l’ambiente. Perché per salvare il pianeta non basta chiudere il rubinetto quando ci si lava i denti. Questo è puro pietismo.”

Veniamo alla violenza sulle donne: c’è qualcosa di nuovo nella quantità e nella qualità della violenza sulle donne in Italia? Che cosa sta succedendo e perché secondo lei?

“Io non so. I dati parlano di un femminicidio ogni 72 ore. Lasciamo stare come vengono uccise, perché anche qui è cambiato qualcosa. C’è più ferocia e questo atteggiamento denota un odio, un desiderio di eliminarla e cancellarla simbolicamente la donna, non solo di ucciderla. Purtroppo ancora tante donne, tante amiche, e anche tanti uomini sottovalutano il pericolo. Perché le donne sono maturate, hanno più consapevolezza di sé, e forse si sentono anche più forti e in grado di far fronte alle situazioni: allora finiscono per sottovalutare i segnali negativi e il pericolo. Noi donne molte volte ci facciamo prendere dalla tenerezza perché crediamo che quel maschio, marito, compagno sia indifeso e fragile, mentre lui non si vede affatto così.”

Da uomo, mi chiedo tante volte come facciano molte donne a sopportare tanti soprusi e tanta violenza in certi contesti familiari e di coppia, per mesi e anni. Fino alle estreme conseguenze.

“Siamo arrivati all’assurdo che un giudice non condanna un marito che maltratta la moglie perché questi maltrattamenti sono andati avanti per vent’anni e quindi, secondo lui, la signora doveva denunciarli prima. Questa cosa è successa a Ravenna, proprio mentre si celebrava il processo Cagnoni.”

 

Il processo per femminicidio a Matteo Cagnoni

Veniamo dunque alla sua esperienza sulla vicenda del femminicidio di Giulia Ballestri e del processo a Matteo Cagnoni. Ne ha fatto un libro che sta per uscire, il 28 marzo, “Ombre di un processo per femminicidio”, ne abbiamo già parlato, ma è bene tornarci su. Intanto che esperienza è stata questa del processo?

“Per me è stato lo sforzo di raccontare cambiando radicalmente ottica rispetto a quello che avevo fatto per 23 anni al TG2 occupandomi di cronaca. Quando mi è stato chiesto dalla Casa delle Donne e dall’UDI di seguire il processo, l’ho vissuta come una sfida nuova. E per prima cosa abbiamo fatto un lavoro sul linguaggio, cioè sulle parole per raccontare i fatti. E fra l’altro Ravennanotizie, grazie al lavoro di Roberta Emiliani, è stato il primo giornale ad accogliere le nostre sollecitazioni. Siete stati estremamente corretti. Io ho affrontato il processo con un’idea: il privato è politico. Io sono una donna e raccontavo il processo come donna. E cercavo le parole per raccontare da una parte e per demistificare dall’altra. Demistificare il pregiudizio che stava dietro quel femminicidio. Per evitare che la vittima anche questa volta diventasse colpevole.”

A Ravenna durante il processo questo non è accaduto, anche per la bravura della PM Cristina D’Aniello.

“Cristina D’Aniello ha fatto una lettura dei fatti a tutto tondo. Un giorno le ho detto: tu sei una donna rotonda. Cioè nel senso che all’interno della sua requisitoria ha tenuto insieme gli elementi di prova e di giudizio con la sensibilità per la persona che era Giulia. Giulia era una persona, non era solo la moglie di Matteo Cagnoni. Era una persona (lo ripete più volte, ndr). Ho cercato, come dicevo, attraverso le parole di mettere a nudo pregiudizi e stereotipi. Questo mi ha insegnato Paola Di Nicola la giudice penale di Roma con i suoi libri. Mentre invece certe sentenze, come quelle tre di cui parlavo prima, ritornano ancora a battere sulla colpevolezza della vittima. Sembra di tornare al vecchio pregiudizio, al delitto d’onore declinato in maniera appena più moderna.”

C’è stato qualche momento durante il processo che le ha fatto particolarmente male o rabbia o tristezza?

“Tristezza. Quando hanno fatto vedere le immagini del suo corpo è stato terribile. Un conto è leggere che era nuda. Un altro conto è vedere quelle immagini, in cui lei era nuda, in quel momento ho davvero capito intimamente che cosa le era stato fatto. A Giulia non solo è stato tolto il viso, ma è stata lasciata agonizzante completamente nuda (la voce ora è strozzata dalla commozione, ndr) e questa mi è sembrata la violenza peggiore. Ho capito fino a che punto un uomo può odiare una donna.”

Che realtà è emersa e anche che Ravenna è emersa dal processo?

“Ho negli occhi due flash mob. Il primo, nel giorno della sentenza. Fra noi donne nel parterre del tribunale ci siamo messe d’accordo spontaneamente per fare qualcosa per quel giorno, per tenere una sedia vuota e portare delle scarpe rosse. Il giorno della sentenza moltissime donne avevano le scarpe rosse e gli uomini che non le avevano si sono lasciati mettere lacci rossi da qualche parte. Uomini e donne tutti avevano qualcosa di rosso. L’avvocato Scudellari si era messo un cinturino rosso. La PM aveva la camicia rossa. A lei ho regalato un portachiavi che avevano fatto all’uncinetto le donne di Alfonsine o di Lugo, non ricordo. Era una scarpina rossa, che lei ha appoggiato accanto al codice penale. L’altro flash mob è stato quando siamo andate con le fiaccole davanti al carcere dopo il trasferimento di Cagnoni da Bologna a Ravenna. Tutte le donne in silenzio.”

Ora esce questo libro testimonianza “Ombre di un processo”.

“Sì e tutti i proventi che verranno dalla vendita del libro andranno alla Casa delle Donne di Ravenna. Vivo della mia pensione. Racconto storie e cerco parole per raccontare la realtà. Parole diverse da quelle di queste tre ultime sentenze, che sono invece ignobili.”

Che cosa ci insegna tutta questa vicenda… che è poi la maniera migliore per ricordare Giulia e far sì che la sua terribile morte, benchè inaccettabile, non risulti anche completamente inutile.

“Non posso dire io cosa possiamo o dobbiamo fare. Ognuno di noi, ogni essere umano deve fare del suo per combattere i pregiudizi e gli stereotipi. E ragionare sulle parole, fare attenzione alle parole. Se un uomo dice a una donna: c’hai un gran bel culo, una donna deve chiedersi: io lo direi a lui? Io Carla Baroncelli magari lo farei perché sono molto impertinente. Ma nel vissuto quotidiano di tutti cosa significa questo?”

Sì, insomma, c’è una sorta di asimmetria, a un uomo pare consentito dire certe cose a una donna no.

“Se lo fa una donna è sconveniente. Se lo fa un uomo magari passa per essere simpatico. Partiamo da qui. Ogni molestia è una forma di violenza. Più o meno grave. Non voglio che si diventi tutti bacchettoni, per carità. Ma voglio che si misurino le parole. Possono ferire? Possono essere violente? Possono discriminare? Allora facciamo tutti attenzione alle parole.”

Intervista raccolta da Pier Giorgio Carloni

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