Un saggio di Franco Gàbici racconta di Ravenna “fra antichi mercati e fiere secolari”

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Ravenna, fra antichi mercati e fiere secolari: s’intitola così l’interessante saggio di Franco Gàbici, giornalista e cultore di storia locale, pubblicato nel volume che raccoglie la ricerca storica sul Mercato Coperto di Ravenna commissionata e pubblicata da Coop Alleanza 3.0 in collaborazione con Molino Spadoni e con il patrocinio del Comune di Ravenna. Ricerca, come sappiamo, presentata il 3 luglio scorso alla Biblioteca Classense. Di questo saggio presentiamo qui un’ampia sintesi.

L’attuale Mercato Coperto è stato costruito sull’antico percorso del Padenna, il fiume che anticamente attraversava la città e sulle cui rive, a partire dall’età medioevale, si sono avvicendati i mercati cittadini, racconta Gàbici.

“Nel bene e nel male Ravenna, nel corso della sua storia, ha sempre dovuto fare i conti con l’acqua e pertanto non stupisce che le prime testimonianze relative ai mercati facciano riferimento a rivendite di pesce. – scrive il cultore di storia locale – Umberto Zaccarini, in un suo saggio, fa giustamente notare che il pesce se da un lato “deteneva un ruolo assolutamente primario nell’alimentazione degli abitanti” dall’altro appagava “l’esigenza diffusamente e profondamente sentita dalla società medioevale di osservare i numerosi digiuni di precetto i quali, allora, assommavano a più di 120 giorni l’anno”.

Una di queste rivendite di pesce, lo attesta un documento del 976, sorgeva nel sagrato della chiesa di San Domenico dove nel 1254 sarebbe sorta la Casa Matha.

“La prima testimonianza dell’esistenza di una zona di mercato giornaliero viene indicata dalla toponomastica cittadina e precisamente da una via del centro “che porta verso il mercato del Ponte Coperto” e da altri significativi toponimi quali Sant’Agata del Mercato (1184) e Santo Stefano del Mercato (1266). – racconta Gàbici – Un documento del 1191 attesta ancora l’esistenza di un altro mercato giornaliero del pesce, ma probabilmente anche di altri generi commestibili, nel borgo lungo via San Gaetanino e la Circonvallazione della Rotonda.”

In antico, il mercato si teneva “in campo comunis” (oggi piazza Arcivescovado) “dove si davano appuntamento venditori di “bestie grosse e minute: bovini, asini, ovini, maiali, formaggi, pollame, uova”, ma anche di vari tipi di selvaggina come “anatre, quaglie, starne, fagiani” nonché di “legna da ardere”. Le condizioni igieniche di queste rivendite lasciavano alquanto a desiderare, come si evince da alcune regole imposte ai rivenditori. Basti pensare che alle donne che le gestivano era stato imposto il veto di “spidocchiarsi” davanti alle loro bancarelle, pena una multa di cinque soldi!”

In età comunale il mercato si svolgeva tre volte la settimana: di lunedì, mercoledì e sabato. Il lunedì era riservato ai rivenditori che venivano da Godo, il mercoledì a quanti provenivano dalla zona di Campiano e di San Pietro in Vincoli e il sabato infine, era riservato a tutti e ciò lascia intendere che la consuetudine del mercato del sabato fosse molto più antica. Non è facile, però, risalire esattamente alle origini del mercato del sabato.

“In età polentana il mercato settimanale temporaneamente emigra nella contrada Calcavinaze (oggi via Tombesi dall’Ova) dove, come lascia intendere il nome, era stato allestito un torchio per le uve. – scrive Gàbici – Nel 1547 il mercato è ricordato nella piazza centrale, all’epoca Foro senatorio, quindi passò nella strada del Corso (via di Roma) e precisamente nel sagrato di Santa Maria in Porto. Infine, a partire dal 1697, va nel sobborgo Adriano. Per le merci che arrivavano via mare il mercato si teneva in tre luoghi e precisamente fuori Porta Serrata, nella zona di via Traversari e San Gaetanino e, infine, lungo i viali Santi Baldini e nei pressi della stazione ferroviaria. Per molto tempo il Forum Boum si tenne nel già citato Campus comunis presso l’Arcivescovado. Qui dall’anno 1365 è indicata la presenza di un Guazadurum, una conca di marmo (quella che i nostri contadini chiamavano ébi) “acciocché i cavalli e le altre bestie possano diguazzare e abbeverarsi”. Questi abbeveratoi erano indispensabili, perché gli animali venivano portati al mercato verso la sera del venerdì e il mercato si chiudeva la domenica a mezzogiorno.”

 

Disegno preparatorio per il gruppo scultoreo dei due pistrici o delfini – simbolo del legame di Ravenna con il mare e con l’acqua – collocato prima sull’Esedra Vignuzzi e poi all’interno del Mercato Coperto di Ravenna (ASCRa, Buste Speciali, 29)

 

LE ANTICHE FIERE

La fiera più antica, racconta Gàbici, era quella di San Michele: era considerata l’evento dell’anno, tant’è che negli statuti ravennati del XII-XIII secolo molte “rubriche” sono dedicate a questa fiera che il Podestà si impegnava a mantenere e a incrementare: “Si teneva all’inizio del mese di maggio, aveva la durata di otto giorni e per la sua gestione venivano eletti dal Gran Consiglio due cittadini (boni cives), un notaio e dodici guardie che prestavano il loro servizio ininterrottamente giorno e notte per tutta la durata dell’evento. Spettava alla direzione della fiera, infine, l’assegnazione dei posti (stationes) e la riscossione dei dazi. All’inizio del Settecento, a seguito dell’abolizione delle franchigie voluta dal cardinale legato Marabottini, la fiera attraversò un momento di crisi, ma con il cardinale Bentivoglio si ritornò alle antiche abitudini e riprese vigore. La Piazza Maggiore (oggi Piazza del Popolo) venne suddivisa in quattro “zone” ognuna delle quali aveva le sue botteghe, fatte di legno. Nasceva praticamente il primo quartiere fieristico della città. Nel 1735, però, il cardinale Alberoni la proibì e i mercanti trasferirono le loro mercanzie sotto le logge del palazzo comunale e lungo la via Palserrata (oggi via Cairoli).”

Gàbici aggiunge: “Nel 1819 il Comune pensa di animare la Fiera di maggio ripristinando l’uso delle botteghe di legno e la questione tenne banco per diverso tempo come dimostra un sonetto di Olindo Guerrini dall’eloquente titolo “De re tabarinaria” a commento di una discussione in seno al Consiglio comunale del 19 novembre 1903 che non solo ripristinava le baracche in legno (56, per la precisione) ma anche l’obbligo del loro abbellimento. Nel sonetto Polinara si rivolge al sindaco informandolo che costruirà una “tabarina” sul modello “d’l’Ardonda” e la farà decorare nientemeno che dal pennello del pittore Domenico Miserocchi (e Pasturen), il tutto “a onore e gloria d’l’avuchet Pulet” che evidentemente era stato uno dei promotori di questa iniziativa.”

Nella prima settimana di maggio c’era anche la Fiera del Duomo, detta anche la Fira de Sant Sassol “perché in questo periodo veniva esposto, in un altare laterale della cattedrale, il “santo sassolo”, una reliquia molto venerata dai ravennati che secondo la leggenda era stata raccolta sul luogo dove era stato lapidato Apollinare. La fiera aveva soprattutto un carattere religioso anche se non mancavano le bancarelle disposte dalla piazza del Duomo alla piazza dell’Aquila lungo la via Rasponi. La Fira de Sant Sassol era una parentesi allegra e chiassosa con le strade che venivano trasformate in teatri all’aperto dove la gente cantava e ballava. Il chiasso e soprattutto la promiscuità, non erano però graditi dai benpensanti e così l’arcivescovo Cantoni proibì i balli sulla pubblica via e successivamente il cardinale Borromeo vietò anche i canti.”

L’ultimo tentativo per ridarle vita risale al 1890 in occasione della solennità del XXV anniversario del ritrovamento delle ossa di Dante. Fu deliberato di tenerla nel viale della stazione, costruendo una lunga fila di botteghe a ridosso del muro di cinta dell’Ospedale. Si costruì un enorme arco trionfale in legno. La stampa locale lo battezzò l’Arco paraventeo di Tito. La bora però lo demolì e per fortuna non ci furono vittime, ricorda Gàbici. L’ultima edizione fu del 1904, nel vecchio ippodromo (attuale Giardino pubblico).

Subito dopo il solstizio d’estate veniva allestita invece la Fiera di San Giovanni (24 giugno) che segnava l’inizio dell’estate e la fine delle scuole: “Per l’occasione si allineavano lunghe file di baracche fra la Torre civica e la chiesa per la vendita di fischietti, pive, ocarine, cipolle, agli e lavanda, che le donne acquistavano per poi deporre nei cassetti insieme alla biancheria… Per l’occasione veniva anche pubblicato un numero unico satirico, La Fira ‘d San Zvan. Il primo numero uscì il 24 giugno 1902.”

Importante era la Fiera di San Vitale istituita dai Veneziani. Aveva una durata di due settimane: si teneva in aprile quando cadeva la festa del Santo. Però, ci dice Gàbici, non era molto vantaggiosa per i ravennati perché “in questa occasione potevano circolare soltanto merci provenienti da Venezia”. Naturalmente, questo obbligo veniva spesso trasgredito. Viene istituito per la prima volta il pagamento dilazionato delle merci. Dal 1507 la fiera diventa biennale, trasferita nell’area intorno a Porta Adriana. Una delle grandi attrazioni di questa fiera “era la “giostra”, una lotta fra due cavalieri armati di lancia. Il vincitore veniva premiato con il “pallio”, un lungo panno che poteva essere di due colori: lo scarlatto recava l’immagine di Sant’Apollinare, il verde quella di San Vitale. Fino al Settecento durante la Fiera si correva la Quintana, una gara dove i cavalli venivano lanciati a briglia sciolta contro un bersaglio di legno a forma di uomo che il cavaliere doveva colpire con la lancia. La Quintana si correva nel tratto della via di Roma fra la via Alberoni e Porta Nuova.”

All’inizio dell’Ottocento si registrano i primi tentativi di dare un’organizzazione ai mercati, ricorda Gàbici. “In una lettera in data 24 settembre 1803 del vice prefetto Zecchini, che ordina alla Comunità alcuni provvedimenti, si legge infatti: “Dietro la visita fatta del locale di S. Domenico si è riconosciuto che possono essere lodevolmente attivati nel medesimo locale il Macello degli animali minuti, il pellatoio di maiali, e la Pescheria. Perché la Commissione possa eseguire i progetti relativi, necessario che sia abilitata a prevalersi dell’ingegner del Comune e ad intraprendere gli opportuni adattamenti. Dipenderà da voi, Cittadini Amministratori, l’abilitarla, e l’assisterla ne’ modi più confacenti. Tutte le cose, che ho accennate, possono eseguirsi in parte assai sollecitamente, ed in parte intraprendersi senza dilazione”.

Nel corso del 1800 tiene banco a più riprese il tema di dotare la città di un Mercato Coperto. Sull’Esedra Vignuzzi e sui vari progetti per il Mercato Coperto di Ravenna inaugurato nel 1922 si rimanda però al saggio di Paolo Bolzani.

Gàbici invece conclude il suo studio ricordando che “uno degli ultimi mercati cittadini si teneva il mercoledì e il sabato nella Piazza Kennedy, che prima del 1963 era chiamata “Piazza del Mercato”. Il mercato cittadino all’aperto si trasferì nell’ampia area del Foro Boario il 3 febbraio del 1964 quindi passò definitivamente nella zona appositamente attrezzata accanto allo Stadio comunale, dove si tiene tuttora.”

 

L’area su cui sorse il Mercato Coperto prima della sua edificazione, nei primi anni del 1900 (G. Savini, Pescheria, in Savini 1905-07, BCRa, Piante panoramiche, Vol. I, fig. 39)

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