Il vizietto antico di giornali e tribunali di parlare della violenza sulle donne secondo stereotipi maschili: se ne è parlato a Ravenna

Scorrendo alcuni titoli sui giornali ma anche leggendo i brani di alcune sentenze, ascoltando certe arringhe nelle aule giudiziarie o leggendo stralci di verbali di interrogatorio, sembrerebbe che nulla sia cambiato nella narrazione della violenza maschile contro le donne. Dai “giganti buoni” che uccidono per una delusione amorosa passando per i “mariti esemplari” che sterminano l’intera famiglia: il maschio-violento viene raccontato, sui media, spesso con “toni empatici”, quasi a volere giustificare azioni terribili che, di fatto, non hanno alcuna giustificazione. Cosa che accade molto di rado invece per le donne vittime di violenza che, al contrario, citando le parole di Andrea Calice, sostituto procuratore presso il Tribunale di Tivoli, spesso “vengono messe sulla graticola” anche purtroppo nei processi.

Della responsabilità dell’informazione nella narrazione delle violenza maschile sulle donne, del linguaggio giuridico e giornalistico che viene utilizzato per affrontare quella che ha le caratteristiche di una vera e propria emergenza sociale, si è discusso nel pomeriggio di lunedì 18 novembre, in un interessante convegno promosso dall’Udi di Ravenna e dal Comune in collaborazione con la Casa delle Donne nell’ambito della rassegna “Una società per relazione”. In realtà qualcosa incomincia a muoversi, molto lentamente a dire il vero, ma in una direzione che fa ben sperare.

Se niente fosse cambiato, ad esempio, dal 2011 non esisterebbe G.I.U.L.I.A  (acronimo di Giornaliste Unite Libere Autonome), associazione fra giornaliste professioniste e pubbliciste nata appunto con due obiettivi principali: modificare lo squilibrio informativo sulle donne anche attraverso un linguaggio privo di stereotipi e declinato al femminile; battersi per le pari opportunità delle giornaliste sui luoghi di lavoro. Ma non sarebbe neppure nata un’esperienza come quella che messa in campo dalla Procura della Repubblica di Tivoli che dedica un’attenzione particolare alla violenza di genere, tanto che dal 2016 è stato creato in Procura uno spazio di ascolto e di accoglienza delle vittime di questi reati.

Quattro i relatori al convegno: il già citato Sostituto Procuratore Andrea Calice, le giornaliste Alessandra Pigliaru de “Il Manifesto”, Paola Rizzi del Direttivo di G.I.U.L.I.A e la scrittrice Giulia Blasi. A fare gli onori di casa presentando e mettendo in relazione i vari interventi l’avvocata Sonia Lama dell’Udi che prima di dare la parola all’unico relatore maschio dell’incontro introduce il tema del linguaggio della giustizia leggendo due delle tante sentenze che hanno fatto discutere, riguardanti una vicenda di violenza domestica e un femminicidio.

Andrea Calice prima di approdare alla Procura della Repubblica di Tivoli, lavorava a quella di Torino dove si occupava di criminalità organizzata. “Dal 2010 – racconta  – mi dedico principalmente al contrasto della violenza di genere, una materia infinitamente più complessa da trattare della criminalità organizzata”. La prima difficoltà è comprendere il linguaggio delle vittime, fatto “di silenzi e di riferimenti simbolici”. Perché una donna vittima di violenza, spiega il magistrato, “porta ferite difficili, che colpiscono il corpo e l’anima, che sgretolano la personalità. Solo un ascolto aperto, libero dai pregiudizi, consente di tradurre efficacemente le parole e i silenzi delle donne”.

Per illustrare meglio il concetto, si serve di un “corto” girato nel 1999 da Paolo Genovese e Luca Miniero “Piccole cose di valore non quantificabile” che viene proiettato sullo schermo allestito alle spalle dei relatori. Il cortometraggio è ambientato in un angusto ufficio di una stazione dei carabinieri. Qui un brigadiere cerca di registrare la denuncia di una ragazza che afferma di essere stata derubata di tutti i sogni. Il “corto” sintetizza bene la difficoltà di ascoltare e di parlare quando appunto si parla di violenza. Formazione e sinergie fra i vari operatori che “agiscono tutti per uno stesso obiettivo” sono gli elementi di una esperienza che il sostituto procuratore Calice definisce “entusiasmante”. Purtroppo gli  stereotipi in materia di violenza maschile contro le donne sono duri a morire e ad essi si accompagna una “cultura giustificazionista” del maschio violentatore. “Ancora oggi – sottolinea – è la donna anche se vittima ad essere messa al centro del giudizio. L’imputato al contrario rimane in controluce, quasi sullo sfondo. Alla donna viene riservato un ulteriore trauma: quello di non essere creduta o comunque di dovere faticare molto per esserlo”.

Aiutato dalle slide proiettate sullo schermo, il magistrato suggerisce una serie di considerazioni basate su alcune sentenze o processi che hanno fatto discutere. Si parte dal 1978, dall’aula del tribunale di Latina dov’è stato celebrato l’ormai  famoso processo per stupro: in quell’aula, per chi ha visto il video sul processo, si respira una cultura di violenza nei confronti della donna che “è tentatrice, avida e demoniaca”. Poi si passa alla sentenza del processo d’appello celebrato nel 2017 ad Ancona, poi annullata in Cassazione dove la vittima dello stupro viene definita “la scaltra peruviana” e derisa per il suo aspetto fisico; poi si arriva al 2018, alle due studentesse americane stuprate a Firenze da due carabinieri: “le due ragazze – sottolinea Andrea Calice – sono state interrogate per 12 ore e le domande sono l’espressione di una cultura violenta contro le donne. Non è questa un’altra violenza che si fa contro la vittima?” Infine sempre nel 2018, la sentenza della Corte d’Assise di Bologna che concede le attenuanti generiche ad un uomo condannato in primo grado per femminicidio che avrebbe ucciso la moglie nel corso di una “tempesta emotiva”.

Non solo. Le donne molto spesso sono “vittime (im)perfette”: “una donna che ama uscire con le amiche, vestirsi come le pare cambia le cose in termini di credibilità”. Insomma, gira e rigira, finiamo sempre lì: una cultura basata sul pregiudizio che si tramanda nei secoli anche grazie i libri di scuola e a giochi da tavolo di dubbio gusto. Contro questi pregiudizi serve una vera e propria rivoluzione culturale che rompa gli schemi e che va fatta inforcando occhiali con “lenti i  di genere”.

La giornalista Alessandra Pigliaru affronta il tema del sessismo nella lingua italiana, partendo da Alba Sabatini. Femminista radicale, impegnata sul versante della difesa e del sostegno dei diritti delle donne ma non solo, ricorda la giornalista del Manifesto, Alba Sabatini è nota per avere legato il suo nome all’uscita, nel 1987, di un testo rivoluzionario pubblicato dalla Presidenza del Consiglio: “Il sessismo nella lingua italiana”. Il libro prende le mosse da una ricerca partita dalla volontà di sollevare il problema del linguaggio sessista e di cominciare ad affrontarlo in modo concreto. In 120 pagine circa, racconta una ricerca che  censisce il linguaggio utilizzato da media, dai manuali scolastici e sulla base di questo censimento fornisce anche una serie di raccomandazioni e di proposte alternative, a partire appunto dalla femmininilizzazione di quei sostantivi  (sindaca, assessora, ingegnera, avvocata, arbitra) da sempre solo ed esclusivamente usati al maschile. Il linguaggio che usiamo, dice Alessandra Pigliaru, è una “postura politica” e  sottolinea l’importanza del lavoro del femminismo nei confronti  della resistenza della lingua italiana che, dice, è ricchissima, ad affrontare il tema della differenza di genere a partire dalla lingua.

Qual è allora il punto? “È necessario partire dalla propria esperienza, dare consistenza a questo linguaggio. Ognuno – dice Alessandra Pigliaru – ha una parte di responsabilità: io so che, usando un certo linguaggio oriento e direziono. Ci sono molte esperienze che si congiungono e questa è la grande scommessa del presente”.

Udi

Tocca poi alla scrittrice Giulia Blasi, autrice fra l’altro, del “Manuale per ragazze rivoluzionarie” prendere la parola. Il suo è un intervento provocatorio: “Continuiamo a fare convegni su queste cose e a parlare continuamente di queste cose, ma non cambia mai un tubo”. Racconta di aver avuto, durante uno di questi incontri, una “conversazione con una giornalista abbastanza accesa”, che affermava di avere “uno sguardo neutro” sulle cose. Contesta il fatto che solo durante la fase più accesa del “Me too” la questione delle molestie ha avuto l’attenzione dei media, poi il silenzio. Eppure, rivela, un questionario anonimo diffuso fra le giornaliste rivela che almeno l’85 per cento ha subito molestie in redazione.

Denuncia il fatto che pur avendo partecipato insieme a decine di migliaia di persone alle manifestazioni di “Se non ora quando”, per quotidiani e tv solo Salvini riempie le piazze. “Voi provate a fare notizia con quello che fanno le  donne – dice con una punta di polemica – . Siamo tutti sessisti? Sì, viviamo dentro una cultura fortemente patriarcale. La violenza maschile sulle donne lo vediamo come qualcosa di episodico e quando accade preferiamo patologizzarlo, parlare di raptus. Come si fa ad uscire da questo gorgo? Non esistono soluzioni semplici, “serve un lavoro individuale e collettivo”.

Infine chiude il convegno Paola Rizzi, giornalista del direttivo di G.I. U. L. I. A. Anche lei per rendere i concetti più immediati utilizza delle slide. La premessa, è che il “diritto di cronaca non può diventare un abuso”. Un giornalista quindi deve attenersi rigorosamente alla verità dei fatti, non indulgere in particolari morbosi o superflui evitando di cadere nel sensazionalismo. Di fatto però “il paradigma culturale è sempre lo stesso, quindi bisogna cercare di sforzarsi in certi automatismi” che sembrano spesso volere giustificare l’autore della violenza .

La giornalista cita la dolorosa vicenda del femminicidio di Elisa Pomarelli uccisa da un uomo descritto come un gigante buono, che l’amava senza però essere corrisposto, e riporta una notizia di cronaca apparsa appena tre giorni fa sull’edizione umbra della Nazione, dove “un uomo esemplare” ha sterminato la famiglia prima di suicidarsi. Fino ad arrivare all’intervista, decisamente “spiazzante”, per usare un eufemismo, fatta da Bruno Vespa a Lucia Panigalli, costretta ad una vita blindata dopo un tentato omicidio e le reieterate minacce da parte dell’ex. Quell’intervista, sottolinea Paola Rizzi, è un perfetto “manuale di come non si deve fare”.

Nata circa otto anni fa, G.I. U. L. I. A.  è impegnata per contrastare gli stereotipi di genere anche all’interno delle redazioni dei giornali dove le giornaliste occupano, raramente, posti di rilievo. È non solo tra le firmatarie, ma fra coloro che hanno contribuito alla elaborazione del Manifesto di Venezia, documento presentato il 25 novembre di due anni fa, per una corretta narrazione della violenza sulle donne.

Il manifesto che richiama la Convenzione di  Istanbul che condanna ogni forma di violenza sulle donne e riconosce come il raggiungimento dell’uguaglianza sia un elemento chiave per prevenire la violenza, insiste al primo punto sulla necessità di inserire, nella formazione deontologica obbligatoria quella sull’utilizzo di un linguaggio appropriato “anche nel caso di violenza sulle donne e minori”. Un linguaggio che non può prescindere dal termine femminicidio che, come sottolinea Paola Rizzi, meglio di chiunque altro, pone l’accento sulla sua “emergenza sociale”.