Ombre di un processo per femminicidio: Carla Baroncelli scrive l’ultimo capitolo dopo la sentenza su Matteo Cagnoni della Corte di Cassazione

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Parole chiave: ergastolo, fotografie, stampa, potere patriarcale.
Non c’è alcun dubbio.
L’ultimo, inappellabile, grado di giudizio della Suprema Corte di Cassazione ha confermato la condanna all’ergastolo per Matteo Cagnoni.
Ha ucciso Giulia Ballestri. La mamma dei suoi figli.
Voleva salvare il suo onore di marito. Di proprietario della vita di sua moglie.
Giulia ha ancora 39 anni e rimarranno sempre 39. Lei voleva liberarsi da quel matrimonio che la annichiliva.
Gli anni del femminicida da 52 sono ora 56.
I suoi figli avevano 11, 9 e 6 anni. Ora ne hanno quattro di più.
I compleanni arriveranno per tutti, ma Giulia non ci sarà a quelle feste dedicate alla loro nascita.
E il femminicida continua a dire che è innocente.
A chi crederanno quei bambini, condannati al dubbio dal loro stesso padre?
Quanti rovelli popoleranno i loro pensieri? Per lungo, lungo tempo. Rabbia. Perdono. Odio. Tristezza. Incredulità.
Neppure l’avvocato della difesa crede all’innocenza del proprio cliente. Lo ammette, senza esplicitarlo più di tanto, nella sua arringa rivolgendosi alla Suprema Corte. Non contesta più le prove del femminicidio, ma cerca di dimostrare che in quel momento era impazzito. Non era sano di mente. Le perizie psichiatriche dicono che era lucido e presente? Impossibile. Inconcepibile. Ribadisce la difesa. Se l’ha fatto, non era capace di intendere e volere, in quel momento.
Un momento durato mesi. Preparato nei dettagli, studiato, freddo.
L’onore prima di tutto. Anche prima dell’amore.
Ma poi, di quale amore? L’amore c’entra sempre. Per amore Giulia ha cercato una salvezza per i suoi bambini e per se stessa. Si è sacrificata, ha sopportato prima di decidere che era per amore che doveva andarsene, portando i suoi figli via da quella casa, ridotta ad una prigione. Immagino che per mesi si sia interrogata se la sua fosse la scelta giusta.
Poi c’è l’amore per se stessi. Totalizzante. Accecante. Narcisistico. Che vede solo la propria immagine.
A proposito di immagini.
Oggi ho sfogliato la rassegna stampa. Le parole e le immagini sono le stesse usate quattro anni fa.
Un uomo e una donna vicini, sorridenti. Didascalia: il dottor Matteo Cagnoni, illustre dermatologo ravennate con la bella moglie. Omettendo il nome e cognome di Giulia Ballestri, la moglie relegata al ruolo di appendice del marito.
Questa fotografia i giornali, non solo locali, l’hanno pubblicata il giorno della scoperta del femminicidio di Giulia. E l’hanno pubblicata anche oggi, la stessa, dopo la definitiva condanna all’ergastolo di Matteo Cagnoni, ma senza didascalia.
Eppure quella fotografia era una messa in scena. Lo sappiamo perché i testimoni l’hanno raccontato.
Sappiamo che il giorno di quello scatto quei sorrisi erano stati imposti da un ordine: devi sorridere in pubblico, ne va della mia immagine.
Una fotografia che oggi è una frustata al cuore. Perché sappiamo che quei sorrisi erano frutto di ricatti affettivi, di minacce, di violenze psicologiche ed economiche, di sottomissione al dovere coniugale.
Quelli non erano sorrisi. Parevano.
In quella famiglia c’era un proprietario assoluto delle vite di tutti i suoi componenti. Perché, nonostante la legge, non sono passati i tempi del delitto d’onore. All’interno di molte coppie c’è ancora chi si arroga il diritto di negare alla donna la libertà di essere, agire, esistere.
Forse per questo Matteo Cagnoni continua a dirsi innocente. Perché crede ancora che l’onore messo in discussione meriti la condanna a morte. Si sente di aver fatto giustizia.
Ai figli non ci ha pensato. Se li è dimenticati. Nella sua mente c’è spazio solo per se stesso.
Abbandonati lungo la strada. I soldi spianeranno le buche, ma non il vuoto dell’assenza della madre uccisa dal padre.
Non dimenticheranno mai.
E cosa possiamo fare noi per loro?
Nessuna di noi dimenticherà, se continueremo a indagare cosa si nasconde dentro ogni femminicidio, se continueremo, tutti e tutte, a guardare oltre al sorriso in una fotografia.
Il rischio di ergastolo non ha fermato i 93 femminicidi che hanno ucciso 93 donne l’anno scorso.
E la prevenzione, il codice rosso, le case rifugio da soli non bastano. Ce ne siamo rese conto.
Questa sentenza della Cassazione farà giurisprudenza. È servita la costituzione di parte civile da parte di Linea Rosa, Udi e Associazione dalla parte dei minori.
Ci vuole di più. Serve un radicale cambiamento culturale. A cominciare dal rendere obbligatoria l’educazione sessuale, sentimentale e di genere nelle scuole.
Tutti i femminicidi vengono giustificati con parole attinenti all’amore. ‘L’amava troppo. Era geloso. Voleva lasciarlo. Amava un altro.’
Non c’entra l’amore con ciò che subiscono le donne uccise dai loro partner. Quello è un amore impostore. Possesso, sopraffazione, umiliazione, percosse e morte travestiti da amore.
Quello non è amore, ma la giustificazione che si dà il patriarca. La sua forma mentis, la cultura del dominio. È un vizio culturale di mente. A cui, ancora troppo spesso, i giornali danno spazio, avallando le tesi di chi pensa che la donna ‘se la sia cercata’.
Così si perpetuano i pregiudizi e gli stereotipi coi quali la cultura maschilista domina ancora la nostra società.
I femminicidi non sono semplicemente fatti di cronaca nera.
Sono un fenomeno strutturale nella mentalità della nostra società. Avvengono in ogni continente, in ogni ceto sociale, livello di istruzione e credo religioso.
Sono la negazione del diritto delle donne ad autodeterminarsi in quanto persone. E non solo in famiglia, ma anche nel lavoro, nella scuola, nella ricerca.
Vorrei che i miei colleghi giornalisti smettessero di parlare di raptus e gelosia per giustificare gli uomini che uccidono le donne e che svelassero la smania di possesso e di dominio come primo movente dei femminicidi.
Quindi, anche se, come in questo caso, la giustizia processuale è stata compiuta, noi donne saremo sempre presenti con tutto il nostro impegno e non ci arrenderemo fino a che gli uomini non smetteranno di uccidere le donne e sconvolgere la vita delle figlie e dei figli.

Carla Baroncelli – giornalista, scrittrice, femminista

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