ROMAGNA. NEL SEGNO DELLA TRADIZIONE / 26 / Gli strepiti pasquali dei “Mattutini delle tenebre” fra scarabàtle e battitura di Giuda o dei peccati

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All’interno delle celebrazioni liturgiche della Settimana Santa venivano definiti «Mattutini delle tenebre» gli uffici del triduo pasquale (anticipato al mercoledì sin dal XIII secolo); in quelle occasioni il suono delle campane veniva sostituito da quello, sordo e sgradevole, derivato dall’uso di strumenti soprattutto ligneo-metallici, chiamati in dialetto romagnolo scarabàtla, timpëla o tampëla. Durante l’ufficio, al termine di ogni salmo, si usava spegnere una delle quindici candele del candelabro triangolare detto Saettia fino a restare nell’oscurità.

Era in questo momento che i fedeli (in genere soprattutto i giovani), in Romagna come altrove, cominciavano da parte loro a produrre abbondantemente rumore percuotendo i banchi, i confessionali, le pareti con verghe e mazze portate in chiesa appositamente o con gli stessi messali, dando fiato a corni, fischietti e utilizzando qualsiasi oggetto adatto a produrre fragore, oppure battendo i piedi, ecc.

Scarabatle

Scarabàtle

Le mazze e bacchette venivano, almeno in tempi più recenti, confezionate (con tanto di ornamenti fatti di incisioni della corteccia o di decorazioni di carta velina colorata) sia da chi poi le avrebbe usate, sia da improvvisati artigiani che magari le vendevano all’ingresso delle chiese. I termini dialettali con cui più di frequente, nella nostra regione, si definiva questo cerimoniale rumoroso, erano nel Piacentino bàtar i pcà (battere i peccati); nell’area ferrarese bàtar Baràba (battere Barabba), piciàr Baràba (picchiare Barabba), bàtar al matutìn (battere il mattutino); in area romagnola bàtar Giuda (battere Giuda), bàtar i Giudei (battere i Giudei), bàtar i pché (battere i peccati); ecc.

Le testimonianze di tale usanza (diffusa in un’ampia zona dell’Europa occidentale) nella nostra regione compaiono con frequenza in Età moderna, soprattutto nei testi dei sinodi diocesani, che raccomandano di proibirne o controllarne gli eccessi, anche per salvaguardare dalle battiture gli arredi delle chiese. Preoccupazioni e proibizioni simili si trovano del resto in decreti e testi diramati dalle gerarchie ecclesiastiche di gran parte d’Italia, preoccupate dal fatto che tali manifestazioni popolari rappresentassero una sorta di superstizione, o peggio. Problemi e proibizioni sono ribaditi, quasi due secoli dopo le prime segnalazioni, in Romagna (Sinodo di Sarsina del 1708) e ripresi tra i consigli impartiti al «novello parroco rurale» dall’arciprete ravennate Giacomo Paganelli nel 1711, che invita a salvaguardare gli arredi sacri portando in chiesa tronchi su cui dirottare le battiture: «In tempo congruo avvertite, che nello strepito non eccedino dopo l’Ufficio, e non battino in balaustri, confessionari, o altro; però voi potrete aver fatto portare de’ legni in chiesa a questo fine» (G. Paganelli, Il novello parroco rurale, Forlì 1711, p. 78). Legni e tronchi da collocare anche all’esterno, nei sagrati, in cui si cercava di dirottare lo svolgersi di questa usanza. Un secolo dopo ancora, i comportamenti appaiono meno violenti, ma la pratica è viva, a quanto appare dai testi delle relazioni romagnole per l’Inchiesta napoleonica del 1811.

Il rito degli strepiti del resto era in qualche modo previsto dalla stessa liturgia e motivato in vari modi; ma la provenienza liturgica (e lontana nel tempo) non può non far pensare che un certo uso popolare, visto come «eccesso» e persino come «peccato» in età controriformistica, sia nato e cresciuto (e sia stato accettato) nei secoli in cui la figura del parroco condivideva in larga parte la cultura dei suoi fedeli e spesso ne era disinvoltamente l’interprete principale, sacerdote di una «nuova» religione che ai suoi livelli più bassi manteneva inevitabilmente gesti, forme, canoni e financo percorsi mentali propri dei «vecchi» culti.

In ogni caso, se le esagerazioni negli strepiti dei «Mattutini» sembrano a un certo punto stemperarsi, non cessano però del tutto, né la pratica manca di presentarsi davvero come qualcosa di a sé stante, che più che ai dettami liturgici sembra collegarsi da una parte alla possibilità, soprattutto per i ragazzi e i bambini, di approfittare dell’occasione per dare sfogo al loro bisogno di divertimento e di una qualche forma di trasgressione; dall’altra ad arcaiche forme rituali di stampo apotropaico.

campane

La «legatura delle campane» 

Nelle motivazioni popolari (e non solo in quelle), il significato simbolico degli strepiti e delle battiture rituali che caratterizzavano i «Mattutini» veniva individuato principalmente nella riproduzione sonora e cacofonica delle concitate fasi della morte di Cristo (anche attraverso una rappresentazione delle violenze e della derisione a cui fu sottoposto), o nel «battere i peccati», o nel «picchiare Giuda» o «i Giudei», incolpati dell’uccisione di Gesù, o nel riprodurre il terremoto che seguì la sua morte. Ma se il cristianesimo (insieme alle altri religioni monoteiste) ha saputo coniugare tempo ciclico e tempo lineare, storicizzando le vicende delle sue divinità e dei suoi santi e martiri, al tempo stesso non può mai dirsi del tutto disgiunto e mondato dalle forme religiose che lo precedono e che in parte vi vengono assorbite lasciando il loro apporto insieme a quello degli archetipi culturali e cultuali che accompagnano tutta la storia dell’uomo «religioso». Ecco dunque che non è possibile disgiungere del tutto la celebrazione storica della Passione e Resurrezione di Cristo dalle arcaiche ritualità che nello stesso periodo dell’anno avevano celebrato la rinascita della primavera anche attraverso il ricorso a molteplici figure di divinità protagoniste di miti di morte e rinascita. Sono due contesti solo in apparenza lontani, che in realtà non mancano di compenetrarsi, soprattutto a livello popolare, in apporti e sovrapposizioni innumerevoli.

Candele

Proprio la formulazione «battere i peccati» che abbiamo trovato testimoniata in Romagna, insieme alla morfologia delle celebrazioni popolari dei «Mattutini», facilmente comparabili con innumerevoli esempi di riti presenti nell’etnografia europea e non solo, sembrano sottendere in modo chiaro un intento purificatorio (fra i tanti che accompagnavano le celebrazioni del periodo pasquale). Insomma, poteva esserci o esserci stato, o essere stato portato e introdotto, nel rito fragoroso dei «Mattutini» – svolto nel luogo di culto, cuore della vita sociale e religiosa della comunità -, anche lo scopo di liberarsi, espellendoli con le battiture e con il rumore apotropaico, dai mali e dai peccati del tempo passato, in un momento di renovatio e di determinante passaggio stagionale. Un rito di espulsione del male, degli spiriti maligni, delle influenze negative, dei gravami dell’inverno e del ciclo temporale in esaurimento, capace di sopravvivere, anzi di entrare a far parte delle celebrazioni cristiane laddove la liturgia ne offriva occasione.

In Romagna come altrove gli strumenti usati per produrre gli strepiti dei «Mattutini» assumevano, nell’ottica popolare, particolari valenze e virtù, caricandosi di un potere magico e apotropaico che ne giustificava e ne richiedeva l’uso anche dopo il rito. Così le bacchette venivano conservate e utilizzate contro varie forme di minaccia, secondo modalità che la Chiesa bollava come superstizioni. Queste bacchette potevano infetti essere tenute sotto i letti per allontanare le streghe, usate per battere i panni onde preservarli dalle tarme, e per altri scopi ancora. Superstizioni o abitudini che continuano ad essere testimoniate, come il rito stesso, nell’Ottocento e fino alla prima metà del Novecento.

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