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Eraldo Baldini: Spero che il fondo Zaffagnini/Bellosi resti in Romagna, ma non ad ammuffire in un cassetto

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Da qualche giorno i quotidiani locali ospitano notizie e opinioni relative a un grande e bellissimo patrimonio di fotografie e registrazioni sonore che, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, è stato costituito grazie all’enorme e costante lavoro del fotografo Giovanni Zaffagnini e dal folclorista, dialettologo e saggista Giuseppe Bellosi.

Li conosco benissimo entrambi, e conosco quel patrimonio, che riguarda la cultura popolare e la vita tradizionale della gente di Romagna. A volte vi ho attinto per i miei studi e le mie pubblicazioni, e ne conosco quindi la vastità e l’importanza. Le registrazioni e le foto riguardano le feste del ciclo dell’anno, la vita contadina, il lavoro dei guaritori di campagna e la magia popolare, la vita sociale (la piazza, il mercato), le ritualità tradizionali (le Pasquelle, i Carnevali e tutte le ricorrenze che venivano celebrate in maniera tradizionale), aspetti del “ciclo della vita” e del paesaggio non solo umano, ecc. ecc.

Perché questa improvvisa attenzione? Perché una università straniera si è offerta di acquistare le fotografie, che potrebbero lasciare la Romagna e finire dunque oltreoceano. Da ciò è nato un certo movimento d’opinione che chiede, giustamente, che restino qui e che qui vengano adeguatamente conservate e soprattutto valorizzate.

Mauro Felicori, Assessore alla Cultura e Paesaggio della Regione Emilia-Romagna, intervenendo nel dibattito ha espresso la propria disponibilità e l’impegno a provarci, cioè a trovare il modo e la strada per far rimanere qui il fondo Zaffagnini-Bellosi. Qualcuno ha suggerito che la Biblioteca Classense di Ravenna potrebbe essere in merito luogo e occasione adatta. La risposta del Direttore della Classense, Maurizio Tarantino, è stata (tiepidamente) possibilista. Del resto la Classense ospita già un patrimonio di 200.000 immagini e fotografie d’epoca.

Ma è qui che sta a mio avviso il nodo vero del problema: un conto è possedere e ospitare dei fondi importanti, un altro è valorizzarli, metterli a frutto, farli rientrare in maniera attiva e virtuosa nelle dinamiche dell’arricchimento culturale di una comunità, metterli a disposizione di chi a quella comunità voglia approcciarsi. Quanti di noi conoscono davvero quelle 200.000 immagini, o le tante altre migliaia conservate presso altre biblioteche, Istituti e collezioni pubbliche? Sì, ogni tanto (raramente) qualche mostra è stata fatta, ma può bastare questo per avvicinare il pubblico a un patrimonio che è di tutti? Io credo di no. Credo anzi che la stragrande maggioranza delle persone non lo sappia neppure, che esistono questi straordinari fondi, questi preziosi scrigni di conoscenza e di memoria.

Del resto tutto ciò, da noi, che riguarda direttamente o indirettamente la cultura popolare risente da troppi decenni di disinteresse e di sottovalutazione. Una sorta di “damnatio memoriae” che ha relegato nel limbo della marginalità una realtà che invece fa parte a pieno titolo della nostra storia, delle nostre radici, della nostra lingua, della nostra cultura. Perché è da lì che veniamo: dal modo di pensare, dal lavoro, dalle abitudini, dagli stili di vita, dalla mentalità, dalle ritualità, dal “sapere” delle tante generazioni che ci hanno preceduto e che fino circa alla metà del Novecento hanno costituito quel mondo contadino, o comunque popolare e tradizionale, che è sopravvissuto secoli o millenni prima di lasciare il posto alla società moderna. Una “eredità” preziosa, insomma, che sarebbe sbagliato sottacere o disperdere.

Volete un paio di esempi di questa scarsa considerazione? Il primo riguarda i musei etnografici: oggi, in provincia di Ravenna, di pubblici ne è rimasto solo uno, a San Pancrazio di Russi, in un funzionale edificio che fu appositamente costruito anni fa. Questo museo però non ha un direttore, non ha personale, non ha orari d’apertura fissi, se non su appuntamento, e la sua gestione è lasciata alla meritoria, volontaria e gratuita attività di una Associazione culturale locale.

Il secondo riguarda il Centro per il Dialetto Romagnolo, nato in passato con una convenzione tra la Provincia di Ravenna, i Comuni e la Fondazione Casa Oriani, con una sede operativa a Casa Foschi. All’inizio il centro era finanziato dalla Provincia di Ravenna; quando, qualche anno fa, alle Province furono tolte le competenze sulla cultura, questo finanziamento fu interrotto. Intervenne l’Istituto per i Beni Culturali, che subentrò nell’azione di finanziamento in base alla Legge regionale sulla la salvaguardia dei dialetti; l’IBC finanziava tra l’altro la necessaria opera di digitalizzazione e di catalogazione dei documenti sonori. Ma nel 2020 il finanziamento è stato sospeso. Ora l’IBC non esiste neppure più (le sue competenze sono passate dal 1° gennaio 2021 all’Assessorato regionale alla Cultura). Teniamo poi conto che il Centro per il Dialetto Romagnolo usava i software delle Regione Lombardia (i più adatti perché realizzati a quello scopo), ma la convenzione con la Regione Lombardia non è stata rinnovata, per cui oggi il catalogo e gli archivi del Centro sono inaccessibili e non ampliabili.

Tornando al fondo Zaffagnini, anche il mio auspicio è ovviamente che rimanga qui. Ma quello maggiore è che venga valorizzato, e che non subisca il destino di finire dimenticato dentro un mobile di qualche biblioteca, insieme ad altri altrettanto dimenticati.

Un fondo di questo genere acquista o mantiene valore se è disponibile, attivo, “presente”.

Se, ad esempio, oltre ad usarlo per allestire mostre si desse vita a una collana di pubblicazioni sui vari argomenti (ad esempio le feste tradizionali, la socialità popolare, il lavoro contadino, la magia popolare, ecc.). Pubblicazioni per le quali andrebbero cercati i necessari finanziamenti: anche se con i “chiari di luna” attuali ciò non è semplice, credo che non sarebbe, però, neppure impossibile, perlomeno nel lungo periodo.

L’importante è volerlo e saperlo fare, e avere la consapevolezza che una comunità ha non solo il dovere, ma anche il diritto di essere padrona delle proprie memorie e del proprio patrimonio culturale.

Nel caso ciò non si voglia fare, allora è meglio che il fondo (lo dico come provocazione, beninteso) venga davvero ceduto all’università straniera che l’ha chiesto e che ha pure illustrato il piano di valorizzazione e di pubblicazioni a cui lo destinerebbe. Anche se questo sancirebbe il nostro menefreghismo e le nostre incapacità, sarebbe sempre meglio che lasciarlo ammuffire in un qualche cassetto nostrano.

Eraldo Baldini

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Commenti

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  1. Scritto da vb

    Sorpreso e preoccupato. Conosco il lavoro di Zaffagnini e, meglio, quello di Bellosi. Sono delle pietre miliari della cultura popolare romagnola che non possono assolutamente lasciare questo territorio. Certamente da non abbandonare in un cassetto. Alla Classense c’è già tanta “roba” nei depositi che anche loro fanno fatica a valorizzare. Non sapevo dei problemi del Centro per il dialetto, mi dispiace, speravo che almeno quello funzionasse e il tempo, purtroppo, passa.
    E giocare la carta delle nostre università? Un bell’istituto, raccoglitore di tutta questa tipologia di testimonianze, presso una delle sedi sparse in Romagna? Le nostre Fondazioni cosa ne pensano?